CAPODANNO 1986: INVOCANDO LA PACE
«L'Anno Nuovo appare
davanti a noi come una grande incognita, come uno spazio che dovremo riempire
con un contenuto, come una prospettiva di avvenimenti sconosciuti e di decisioni
da prendere. Come una nuova tappa e un nuovo spazio della lotta del bene e del
male a livello di ogni essere umano e insieme a livello della famiglia, della
società, delle nazioni: dell'umanità intera». Con queste
parole il Santo Padre offriva al Creatore il 1986 appena iniziato, nella sua
ispirata omelia centrata sul tema dominante del Capodanno, Giornata mondiale
della Pace.
È fin troppo facile osservare che mai come quando più
tremendi e insopportabili rombano i rumori di guerra l'umanità si volge
al Cielo in cerca del bene insostituibile della pace. Questa paterna
sollecitudine è stata propria di tutti gli ultimi Sommi Pontefici,
soprattutto quando il mondo venne a trovarsi di fronte alle frustrazioni morali
e materiali incommensurabili provocate dalla Grande Guerra e dalla seconda
guerra mondiale. L'invocazione altissima di papa Benedetto XV all'epoca del
primo conflitto («cessi alfine l'inutile strage!»), i radiomessaggi
natalizi di Pio XII esortanti alla pace e la bianca figura di questi, protesa a
braccia spalancate come un Cristo sulla croce, quasi a farsi scudo della
Città Eterna minacciata dal cielo con bombardamenti sempre più
disastrosi, costituiscono le immagini forti che precedono l'ansiosa e costante
preoccupazione dei loro successori per questo tema di fondo.
Oggi, dal
Medio Oriente all'America Latina, dall'Africa Australe all'Iran, non sono certo
i focolai di guerra che mancano sul nostro pianeta; e le visioni impietose di
quei lontani conflitti (ma, quando lambiscono il Mediterraneo, neppure tanto
lontani) entrano direttamente nelle nostre case quasi ogni giorno per mezzo
dello schermo televisivo, e ci provocano nella nostra tranquillità
quotidiana, interrogando il nostro senso di umana solidarietà, la nostra
coscienza di appartenere a un destino comune. Per questo le parole del Papa,
ripetute ancora una volta e rivolte a tutti con ferma intenzione, non
costituiscono un augurio formale bensì la promessa di un impegno
quotidiano, concreto e costante. L'anno 1986 è stato proclamato dalle
Nazioni Unite «anno internazionale della Pace», ci ricorda Giovanni
Paolo II: aiutiamo tutti a costruirla, prima di tutto nell'intimo delle
coscienze e quindi nell'arengo mondiale, dove, ha ricordato, operano i
componenti delle missioni diplomatiche, dei quali va sottolineato il prezioso
ruolo svolto a favore della pace e dell'intesa, anche nelle missioni accreditate
presso lo Stato della Città del Vaticano. Il Papa concludeva la giornata
come di consueto affidando l'anno nuovo a Dio durante la recita comunitaria
dell'Angelus.
CATECHESI SULLA CREAZIONE
Nell'udienza generale dell'8 gennaio, papa Wojtyt
ha cominciato a sviluppare il tema catechistico scelto per il 1986, vale a dire
«il mistero della creazione», quello stesso attorno al quale si
affaticano le menti dei ricercatori e dei filosofi, raggiungendo sempre nuovi,
clamorosi risultati (vedi le teorie del «Big Bang» primigenio, la
scoperta dei quark, delle specie fossili, del DNA...) senza mai ottenere una
risposta definitiva, che soltanto la fede può dare. Ma in quale rapporto
sta la fede, appunto, con le prospettive della ricerca scientifica? «La
domanda sulla creazione - dice il Papa - affiora all'animo di tutti, dell'uomo
semplice come del dotto si può dire che la scienza moderna sia nata in
stretto collegamento, anche se non sempre in buona armonia, con la verità
biblica della creazione. Ed oggi, chiariti meglio i rapporti reciproci fra
verità scientifica e verità religiosa, tantissimi scienziati, pur
ponendosi legittimamente problemi non piccoli come quelli riguardanti
l'evoluzione delle forme viventi, dell'uomo in particolare, o quello circa il
finalismo immanente al cosmo stesso nel suo divenire, vanno assumendo un
atteggiamento maggiormente partecipe e rispettoso nei confronti della fede
cristiana sulla creazione».
Il Papa ha quindi annunciato che la sua
catechesi creazionistica proseguirà nelle prossime udienze dando «il
debito posto alla Scrittura», ma intanto ha voluto ricordare e valorizzare
«la grande tradizione della Chiesa, prima con le espressioni dei Concili e
del magistero ordinario», e quindi anche mediata attraverso le
«appassionanti e penetranti riflessioni di tanti teologi e pensatori
cristiani». E qui, parlando di creazionismo/evoluzionismo, il pensiero di
tutti non può non rimandare alla grande e feconda opera
scientifico/teologica del padre Teilhard de Chardin, il gesuita
«proibito», come fu detto, oggi invece pienamente partecipe della
grande, complessiva ricchezza interiore e umana della Chiesa universale. Il
Papa, tuttavia, non ha fatto nomi, ma si è limitato ad annunciare:
«Rifletteremo sul mistero della chiamata dal nulla di tutta la
realtà creata, ammirando insieme l'onnipotenza di Dio e la sorpresa
gioiosa di un mondo contingente che esiste in forza di tale
onnipotenza».
NEL RICORDO DEL «NUOVO CONCORDATO»
Il 18 gennaio 1986 il Santo Padre si recava in
visita ufficiale al Quirinale, dal Presidente della Repubblica Italiana.
Rivolgendosi al Capo dello Stato, Francesco Cossiga, non mancava di rievocare
con accenti cordiali la sua precedente visita in quella stessa sede, compiuta
quando era ancora presidente il senatore Sandro Pertini, il 2 giugno 1984, in
occasione della festa della Repubblica. Il Papa ha quindi soggiunto: «La
frequenza di questi incontri negli ultimi anni è certo dovuta alla
coincidenza di particolari circostanze; tuttavia, non ci si può sottrarre
ad una domanda in ordine al loro significato.
Si tratta di un interrogativo
che ha aspetti generali ed assume rilievo ogni volta che i rappresentanti della
Chiesa si incontrano con quelli di uno Stato. Nel caso dell'Italia, esso
presenta caratteristiche singolari e specifiche, a motivo di una vicinanza che
è insieme geografica e storica, oggettiva e personale».
Le
ragioni di autonomia e di distinzione nelle rispettive funzioni tra l'Italia e
il Vaticano - sancite a suo tempo dai Patti Lateranensi (11 febbraio 1929), sono
state confermate, ha ricordato il Papa, nell'accordo sottoscritto dal governo
italiano il 18 febbraio 1984: «Questo, apportando al Concordato le
modificazioni suggerite dalle mutate situazioni storiche e culturali, ha inteso
favorire il pacifico e fruttuoso esercizio delle due potestà, che
riguardano persone che sono, allo stesso tempo, membri della Chiesa e cittadini
dello Stato». Il Papa ha quindi richiamato uno dei più significativi
testi conciliari del Vaticano II, quello contenuto nella Costituzione Gaudium et
Spes, al paragrafo 76, che afferma: «La comunità politica e la
Chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel proprio campo. Tutte e
due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e
sociale delle stesse persone umane. Esse svolgeranno questo loro servizio a
vantaggio di tutti in maniera tanto più efficace quanto meglio
coltiveranno una sana collaborazione tra di loro, secondo modalità adatte
alle circostanze di luogo e di tempo». «Signor Presidente - ha
concluso il Papa - l'accenno all'ospitalità tradizionale del Popolo
italiano mi porta quasi naturalmente ad allargare il discorso all'intero
patrimonio storico di questa Nazione, che affonda le sue radici nella tradizione
cristiana ed è intimamente legata alla presenza della Sede Apostolica.
Tale presenza, in quanto evocatrice di memorie storiche e di funzioni
provvidenziali, costituisce un perenne richiamo che stimola alla custodia ed
allo sviluppo di tale bimillenario patrimonio». Quindi Giovanni Paolo II ha
implorato una speciale benedizione celeste sull'Italia, che si apprestava a
celebrare il quarantesimo anniversario della fondazione della Repubblica (2
giugno 1946).
NELLA SUA DIOCESI
Il Vescovo di Roma non dimentica la sua diocesi
particolare, pur tra le cure della Chiesa universale; così, il 19 gennaio
si recava in visita pastorale, come un buon padre, nella parrocchia romana di
San Gaetano da Thiene, dove, prendendo spunto dal vangelo domenicale riferito al
primo miracolo di Gesù (le nozze di Gana), pronunciava la sua omelia
ricordando ai fedeli che l'ambito dell'amore sponsale non deve rimanere chiuso
in se stesso, ma deve invece aprirsi al bene della comunità ecclesiale e
sociale. «Il fatto - ha detto il Papa - che Gesù di Nazaret abbia
iniziato la sua missione messianica a partire da uno sposalizio costituisce pure
un riferimento molto eloquente all'Antica Alleanza, come ne dà
testimonianza l'odierna prima lettura tratta dal libro del Profeta
Isaia».
Dopo aver scelto Israele come sua sposa, unendosi ad essa con
alleanza indissolubile, ha spiegato il Papa, il Signore non ha ritirato la sua
scelta, nonostante Israele si sia mostrata spesso infedele. L'amore tra gli
sposi rappresenta il simbolo di questo grande amore divino, e non può
rimanere chiuso fra le pareti domestiche, «poiché l'amore, ogni
amore tende per esigenza intrinseca ad espandersi, a diffondere il bene attorno
a sé», e dunque si impegna «in responsabilità e legami
sempre più vasti, mediante una solidarietà, una
disponibilità e una dedizione tali da fare della famiglia una scuola di
socialità, perché scuola di umanità ricca e
completa».
AL SINDACO DI ROMA
Pochi giorni dopo, il Santo Padre riceveva in
Vaticano la visita dei componenti l'amministrazione comunale della sua
città e ne traeva profitto per ammonire paternamente i responsabili circa
l'importanza della questione morale. Dopo aver ricordato che Roma, «per la
sua ricchezza culturale, per i suoi ineguagliabili tesori d'arte, ma soprattutto
per il suo altissimo significato spirituale» si può considerare
patrimonio dell'intera umanità, il Papa ha voluto notare che
«tuttavia Roma ha pure una vita a sé, come città degli uomini
che qui sono alle prese col quotidiano, al centro, nelle borgate, nel vasto
anello che la circonda e che ad essa confluisce con tutta la gamma dei problemi,
gravi e complessi, propri delle grandi aree metropolitane».
I problemi
di Roma sono molti, ha suggerito il Papa, e la capitale italiana li condivide
con tante altre città del mondo: «Enormi e crescenti appaiono le
difficoltà che un'amministrazione efficiente ed organica deve oggi, in
ogni città del mondo, quotidianamente affrontare per venire incontro alle
esigenze dell'uomo. Non si tratta solo di difficoltà attribuibili a
ritardi rispetto al ritmo vertiginoso del progresso moderno, ma anche di
esigenze nuove che accompagnano lo stesso sviluppo. Quanto più elevato
è il livello di vita sociale raggiunto, tanto più grandi si
presentano le difficoltà che occorre ogni giorno affrontare e
risolvere».
Ma forse il primo e più grande problema di Roma
come di tante altre metropoli sta proprio nella sua straordinaria espansione e
agglomerazione urbana, che ha travalicato e travolto le esigenze di una reale e
concreta comunità a misura d'uomo. «Ci si può chiedere - ha
esclamato il Papa a questo proposito - se siano città dell'uomo le
metropoli moderne, e talora gli stessi agglomerati urbani di media grandezza,
specie se capitali, dove i problemi diventano più acuti con
l'intrecciarsi della rete dei rapporti nazionali e internazionali. Il fenomeno
dell'espansione urbanistica incontrollata crea giganteschi alveari, con poco
spazio per un vero respiro umano. Il problema della viabilità mette il
cittadino nella condizione di un continuo logoramento fisico-psichico. La crisi
edilizia costringe varie categorie di persone a vivere in alloggi di fortuna ed
ostacola i giovani che vogliono formarsi una famiglia. Il dissesto ecologico,
col crescente inquinamento dell'aria e dell'acqua e con l'assordante rumore del
traffico, mette a repentaglio la salute, distruggendo la
quiete».
«Negli ultimi anni - ha concluso il Papa - sembrano
essersi inoltre accentuati fenomeni quali il terrorismo e la violenza di ogni
tipo - Roma ne ha fatto ancor di recente una ben triste esperienza - la
criminalità comune, l'uso della droga specie nel mondo giovanile e nelle
diffuse aree dell'emarginazione: e tutto ciò sia per effetto di oscure
trame anche internazionali, sia per il persistere di situazioni irrisolte di
ingiustizia e di bisogno, sia infine per la caduta dei grandi, fondamentali
valori. Nell'esame di questo panorama dolorosamente negativo, un dato costante
appare evidente: la città diventa meno umana là dove si attenua o
degrada il senso morale e religioso». Gli amministratori capitolini,
sindaco in testa, avranno senza dubbio tratto conforto e sprone dalle opportune
indicazioni del Papa sulle carenze della loro città, e si saranno
impegnati a porvi rimedio sulla base delle illuminanti esortazioni
pontificie.
CONTRO LA SCONFITTA DELL'ABORTO
Ricevendo in udienza, il 25 gennaio, i
rappresentanti del Movimento per la Vita, Giovanni Paolo II ha affermato che la
Chiesa, in un'epoca storica nella quale la cultura della morte sembra destinata
a prevalere, s'impegna a continuare ad illuminare e sollecitare con pastorale
insistenza l'opinione pubblica internazionale allo scopo di determinare una
inversione di tendenza. «Voglio subito dirvi - ha esordito il Papa - che la
vita costituisce uno di quei valori essenziali, per la cui tutela e promozione
la società stessa esiste e si articola nelle sue strutture». Ha
quindi elevato la sua denuncia in tono alto e forte: «L'eliminazione della
vita del nascituro - ha detto - è oggi purtroppo un fenomeno assai
diffuso nel mondo, perfino in nazioni di millenarie tradizioni cristiane, come
l'Italia. Finanziato col contributo del denaro pubblico, è facilitato
dalle leggi umane con un insieme di argomentazioni di cui, in verità, non
è difficile vagliare l'inconsistenza e la capziosità. In
realtà l'aborto - ha ribadito con forza il Papa - è una grave
sconfitta dell'uomo e della società civile. Con esso si sacrifica la vita
di un essere umano a beni di valore inferiore, adducendo motivi spesso ispirati
da mancanza di coraggio e di fiducia nella vita e talora da desiderio di un
malinteso benessere. E lo Stato, anziché intervenire com'è sua
missione a difendere l'innocente in pericolo, prevenendone la soppressione e
assicurandone, con mezzi adeguati, l'esistenza e la crescita, autorizza ed anzi
concorre all'esecuzione di una sentenza di morte. È questa - ha concluso il
Papa - una delle conseguenze più preoccupanti del materialismo teorico e
pratico, che, negando Dio, finisce per negare anche l'uomo nella sua essenziale
dimensione trascendente, ed è un frutto dell'edonismo consumistico, che
pone nell'interesse immediato il fine dell'attività
umana».
IL VIAGGIO IN INDIA
Durante la recita dell'Angelus, il 26 gennaio
, il Santo Padre ha annunciato ai fedeli il suo ennesimo pellegrinaggio
pastorale fuori dei confini d'Italia e della stessa Europa, descrivendo
così la grande nazione che sarebbe stata la meta del suo viaggio:
«Si tratta della seconda nazione del mondo per il numero degli abitanti.
L'India è un Paese di culture millenarie, che hanno trovato espressioni
letterarie, artistiche, linguistiche, filosofiche, sociali di primissimo ordine
e che rimangono ancor vive. Aprendosi alla modernità, e cercando di
risolvere i tanti problemi di sviluppo, ha saputo rispettare tale pluralismo
culturale».
Il Papa ha quindi fatto cenno all'ampia gamma di
tradizioni religiose proprie dell'India: «Questa nobile nazione è
conosciuta anche per le sue religioni: l'induismo è praticato dalla
maggioranza con varie forme e tradizioni; il sikhismo, il buddhismo e il
jainismo sono diffusi in molte regioni. Vi hanno trovato inoltre
ospitalità l'islamismo e lo zoroastrismo. Anche il cristianesimo vi
è presente fin dai tempi apostolici. Le comunità cristiane
dell'India meridionale si gloriano giustamente del nome di "cristiani
dell'apostolo San Tommaso". L'opera di zelanti missionari ha reso poi presente
la Chiesa in diverse parti del Paese; anche se i cristiani rimangono una infima
minoranza, sono però attivi e apprezzati per l'opera che svolgono
soprattutto in campo educativo, ospedaliero e assistenziale. Questa convivenza
di culture e religioni, di attenzione ai valori spirituali e ai bisogni degli
uomini e della società ha facilitato il sorgere di uomini ormai
conosciuti dappertutto come Gandhi, Padre della nazione indiana e promotore dei
diritti umani mediante metodi pacifici. Mi reco in India - ha poi tenuto a
precisare il Santo Padre - come pellegrino di pace, e come Pastore che ha il
mandato di confermare i fratelli nella fede, nella unità ecclesiale e
nella loro testimonianza a Cristo. In quel grande Paese dove il pellegrinaggio
è espressione e mezzo di spiritualità, voglio manifestare
rispetto, stima e incoraggiamento a tutti coloro che cercano Dio, che si
impegnano nella ricerca della perfezione, che lavorano nel servizio dei fratelli
e nella costruzione della pace e della giustizia».
OMAGGIO AL MAHATMA GANDHI
Le attente parole del Papa nei rispetti della
complessa realtà indiana fanno quasi presagire quello che sarà il
grande raduno di preghiera dei rappresentanti di tutte le religioni del mondo
riuniti ad Assisi, di cui parleremo a suo luogo; si noterà come Giovanni
Paolo II abbia accuratamente evitato di condannare e anche soltanto di rilevare,
le grandi differenze ideologiche e teologiche che distinguono l'India religiosa
e politica, dal paganesimo delle sue pratiche spirituali e cerimoniali alla
necessità nella quale il governo indiano si è venuto a trovare di
prendere in mano in qualche modo il controllo delle nascite nel Paese,
promuovendo un'opera di sterilizzazione di massa che ha cominciato a dare i suoi
primi risultati e che certo non risulta in linea con gli insegnamenti della
morale cattolica tradizionale.
Si è trattato di un gesto coraggioso
e quasi rivoluzionario, confermato dai primi incontri che il Papa ha avuto in
India nei primi dieci giorni di febbraio, a cominciare da quello con la memoria
del Mahatma Gandhi, la «grande anima» dell'immenso Paese, onorando il
quale il Pontefice ha inteso celebrare il senso religioso naturalmente presente
nell'uomo, qualunque sia la forma ch'esso poi prende nelle particolari
situazioni storico-sociali nelle quali s'incarna. Così, appena arrivato a
Nuova Delhi, Giovanni Paolo II ha pronunciato un discorso dinanzi al monumento
di Gandhi, durante il quale ha detto fra l'altro: «Due giorni fa cadeva il
° anniversario della sua morte. Lui che era vissuto per la non-violenza
sembrò sconfitto dalla violenza. Per un breve momento sembrò che
la luce fosse spenta. Ma i suoi insegnamenti e l'esempio della sua vita
continuano a vivere nella mente e nel cuore di milioni di uomini e di donne
[...] Sì, la luce rifulge ancora, e il retaggio del Mahatma Gandhi
continua a parlarci. E oggi sono venuto qui, pellegrino di pace, a rendere
omaggio al Mahatma Gandhi, eroe dell'umanità.
Da questo luogo, che
è legato per sempre alla memoria di questo uomo straordinario, voglio
esprimere al popolo dell'India e del mondo la mia profonda convinzione che la
pace e la giustizia, delle quali la società contemporanea ha tanto
bisogno, saranno conseguite soltanto seguendo la via che era l'essenza stessa
del suo insegnamento: il primato dello spirito e la Satyagraha, la
verità-forza che vince senza violenza attraverso il dinamismo intrinseco
dell'azione giusta. La potenza della verità ci porta a riconoscere con il
Mahatma Gandhi la dignità, l'uguaglianza e la solidarietà fraterna
di tutti gli esseri umani, e ci incita a rifiutare ogni forma di
discriminazione. Ci fa vedere ancora una volta la necessità della
reciproca comprensione, dell'accettazione e della collaborazione tra gruppi
religiosi nella società pluralista dell'India moderna e in tutto il
mondo». Queste parole illuminate e illuminanti, che faranno gridare
all'eresia i cattolici tradizionalisti riuniti attorno a figure come quella
patetica del vescovo scissionista Marcel Lefèbvre, il Papa le
ripeterà altre volte, fino a renderle evidenti nella grande giornata di
Assisi, dove tutti i popoli della terra saranno invitati a pregare nelle loro
singole religioni la medesima divinità che ognuna trascende.
DIO È PRESENTE IN TUTTE LE CULTURE
La grande catechesi ecumenica di Papa Wojtyla
proseguirà il giorno dopo durante la celebrazione della Messa a Dakhi,
quando affermerà senza esitare che «Dio è presente nel cuore
stesso delle culture umane perché è presente nell'uomo - l'uomo
che è creato a sua immagine - e che è l'artefice della cultura.
Dio è presente nelle culture dell'India. È stato presente in tutte
quelle persone che hanno contribuito con la loro esperienza e aspirazioni alla
formulazione di quei valori, usanze, istituzioni e arti che costituiscono il
patrimonio culturale di questa antica terra». Quindi il Papa ha ancora
ricordato la preziosa opera spirituale e politica di Gandhi, accostandolo alla
figura di Madre Teresa di Calcutta e a quella del grande poeta Rabindranath
Tagore: «I nobili sforzi di questi uomini e donne dell'India - ha detto -
sforzi tendenti a promuovere la liberazione sociale e lo sviluppo umano
integrale, sono in sintonia con lo spirito del Vangelo [...] Tanti problemi
della vita sociale in India e in tutto il mondo hanno bisogno di affinamento e
di purificazione.
Individui e gruppi hanno bisogno di guarigione e di
riconciliazione. Ignoranza e pregiudizio devono essere sostituiti da tolleranza
e comprensione. Indifferenza e lotta di classi devono trasformarsi in
fratellanza e servizio impegnato. Le discriminazioni basate sulla razza, sul
colore, sul credo, sul sesso o sull'origine etnica devono essere rifiutate come
del tutto incompatibili con la dignità umana». Sono parole e
concetti memorabili sulla bocca di un Papa, anche se restano ancora troppo
sovente pure petizioni di principio. Ma è pur sempre dalle affermazioni
di principio che incomincia la pratica concreta della tolleranza e della
verità.
Lo stesso giorno 2 febbraio, ai fedeli di diverse religioni
riuniti per ascoltarlo parlare, il Papa si è rivolto citando l'ex
presidente indiano Sarvepalli Radhakrishnan, e ribadendo i concetti di
collaborazione e amore interconfessionale che già aveva esposto in
precedenza: «Nel mondo odierno, vi è l'esigenza che tutte le
religioni collaborino per la causa dell'umanità, e che lo facciano
nell'ottica della natura spirituale dell'uomo. Oggi, come Indù,
Musulmani, Sikh, Buddhisti, Jainiani, Parsi e Cristiani, ci riuniamo in fraterno
amore per asserire ciò con la nostra stessa presenza. Nel proclamare la
verità sull'uomo, insistiamo sul fatto che la ricerca di un benessere
temporale e sociale e di una piena dignità umana da parte dell'uomo
corrisponde all'anelito profondo della sua natura spirituale. [...] Questa
collaborazione inter-religiosa deve anche occuparsi della lotta per eliminare la
fame, la povertà, l'ignoranza, la persecuzione, la discriminazione e
qualsiasi forma di schiavitù dello spirito umano [...] Questo è
l'umanesimo che ci unisce oggi e che c'invita a una collaborazione fraterna.
Questo è l'umanesimo che offriamo a tutti i giovani presenti qui oggi e a
tutti i giovani del mondo. Questo è l'umanesimo al quale l'India
può dare un imperituro contributo».
NELLA CASA DI MADRE TERESA
L'accorata e commossa visita del Papa al Nirmal
Hriday di Calcutta, dove operano le figlie di Madre Teresa, è stata
certamente uno dei punti forti del viaggio apostolico in India, e le immagini
che hanno fatto il giro del mondo hanno reso partecipi milioni di persone del
messaggio di fratellanza e di amore che quest'opera
rappresenta.
«Nirmal Hriday - ha detto il Pontefice dopo essere
passato tra i giacigli degli incurabili, molti dei quali lo invocavano piangendo
perché tornasse a trovarli - è un luogo di sofferenza, un centro
che conosce molto bene l'angoscia e il dolore, una casa per gl'incurabili. Ma,
nello stesso tempo, Nirmal Hriday è un luogo di speranza, un centro
costruito con fede e coraggio, una casa dove regna l'amore, una casa piena di
amore».
«A Nirmal Hriday - ha proseguito commosso il Papa - il
mistero della sofferenza umana incontra il mistero della fede e dell'amore. Ed
in questo incontro sono le più profonde questioni dell'esistenza umana a
farsi sentire. Il corpo sofferente e lo spirito gridano: "Perché?
Perché morire?". E la risposta che ottengono, spesso dettata dal silenzio
della benevolenza e della compassione, è ricca di onestà e di
fede: lo non posso dare una risposta esauriente a tutte queste vostre domande;
io non posso alleggerirvi di tutto il vostro dolore. Ma di questo sono sicuro:
Dio vi ama con un amore infinito. Voi siete esseri preziosi per lui. Anche io vi
amo in lui. Perché in Dio noi siamo realmente fratelli e sorelle».
Sono parole che fanno meditare e che costituiscono a loro volta una
novità clamorosa rispetto alle orgogliose affermazioni di una religione
trionfalistica ancora in vigore fino a non molto tempo addietro dalle parti di
Roma. Ha concluso il Papa: «Nirmal Hriday attesta la profonda
dignità di ogni essere umano. La cura amorevole che qui vediamo
testimonia la certezza che il valore di un essere umano non è misurato
con la utilità dell'ingegno, con la salute o con l'infermità, con
l'età, il credo o la razza. La nostra dignità umana ci viene da
Dio nostro creatore, a cui immagine siamo stati creati. Nessuna privazione o
sofferenza potrà mai rimuovere questa dignità».
UNA NUOVA CIVILTÀ STA LOTTANDO PER NASCERE
Il 3 febbraio 1986, dopo la visita alla casa dei
moribondi di Kalighat, il Santo Padre così si è rivolto alle
autorità religiose dell'India e in particolare della città di
Calcutta, in cui si trovava: «Io sono fermamente convinto che proprio come
tutti gli esseri umani sono uniti nell'esperienza del dolore e della sofferenza,
così anche tutti gli uomini e le donne di buona volontà che sono
alla guida nel campo dell'impegno intellettuale ed artistico devono unirsi in
una nuova solidarietà per rispondere alle sfide fondamentali dei nostri
tempi. [...] La nuova situazione nella quale i progressi della conoscenza e
della tecnologia hanno posto la famiglia umana richiede una visione e una
saggezza pari al meglio di quanto l'umanità ha prodotto sotto la guida
dei suoi santi e dei suoi saggi. Una nuova civiltà sta lottando per
nascere: una civiltà di comprensione e rispetto per l'inalienabile
dignità di ciascuna persona umana creata ad immagine di Dio, una
civiltà di giustizia e pace in cui vi sia ampio spazio per le legittime
differenze ed in cui le dispute possano essere risolte mediante un dialogo
illuminato e non tramite il conflitto [...] Si apre qui un campo immenso di
dialogo tra varie filosofie e tradizioni religiose in risposta a queste domande,
e di mutua collaborazione alla ricerca di una risposta concreta alla sfida dello
sviluppo e dell'assistenza, in particolare ai più poveri. I santi ed i
veri uomini e le vere donne di religione sono sempre stati mossi da una potente
e attiva compassione per i poveri e i sofferenti. Ai nostri giorni, allo stesso
modo in cui cerchiamo di dare sollievo alle pene dei singoli e dei gruppi, la
nostra coscienza religiosa e sociale si trova di fronte alla sfida posta dal
problema inevitabilmente sollevato dalla crescente diseguaglianza tra le aree
sviluppate e quelle che sono sempre più dipendenti, e dall'ingiustizia
consistente nel fatto che molte delle risorse necessarie vengono incanalate
nella produzione di terrificanti armi di morte e di distruzione».
Il
Papa ha proseguito citando il pensiero del saggio indiano Swami Vivekananda e un
passo delle Upanishad, libro sacro dell'induismo: «Solo la verità
trionfa». Il servizio reso agli uomini è servizio reso a Dio, ha
concluso il Pontefice, e si è rivolto alla comunità cattolica del
Bengala e dell'intera India per esortarla a operare generosamente in vista della
fraterna solidarietà coi più poveri e dimenticati fra gli
uomini.
LE ALTRE TAPPE DEL VIAGGIO IN INDIA
Nei giorni seguenti il Santo Padre, proseguendo
nel suo pellegrinaggio apostolico in questo Paese di nobili e antiche
tradizioni, visitava la basilica di San Tommaso Apostolo a Madras, dove
s'incontrava con l'arcivescovo Arulappa e con esponenti religiosi di diverse
confessioni non-cristiane, ai quali riconfermava la sua profonda convinzione che
«l'India è davvero la culla di antiche tradizioni religiose [...] Le
vostre meditazioni sull'invisibile e lo spirituale hanno lasciato un segno
profondo nel mondo». Quindi il Papa si è recato a Mangalore e nella
colonia portoghese di Velha Goa, dove, il 6 febbraio, in un incontro coi
sacerdoti cattolici, ha parlato loro dei guru indiani, maestri spirituali che
rivestono un ruolo preminente nella trasmissione e nello sviluppo delle
verità religiose.
Le ulteriori tappe del pellegrinaggio portarono il
Papa a Conchin e a Trichur, dove il 7 febbraio partecipò a un incontro di
preghiera con il vescovo mons. Kundukulam, inviando un saluto alle
comunità e alle diocesi di rito siro-malabarico, esaltando la lotta delle
famiglie cristiane del Kerala per essere sempre comunità di amore e
solidarietà. Lo stesso giorno, il 7 febbraio, il Papa s'incontrava a
Kottayam con il cathòlicos (il vescovo) siro-ortodosso di Antiochia,
ricordandogli che «ogni divisione tra i cristiani è di ostacolo alla
diffusione del Vangelo» e rievocando l'impegno preso col patriarca della
medesima Chiesa Siro-Ortodossa, Sua Santità Zakka Iwas I, due anni prima
a Roma, «di fare tutto ciò che è nelle nostre capacità
per realizzare la piena comunione visibile tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa
Siro-Ortodossa di Antiochia».
Trivandrum, Vasai e Bombay furono le
ultime tappe del lungo viaggio. In quest'ultima città, il Papa
visitò la cattedrale, il giorno 9 febbraio, e tenne un'omelia nel grande
parco Shivaji, esaltando dinanzi a migliaia di persone l'amore coniugale che ha
il suo modello nell'amore di Cristo per la Chiesa. Al termine della messa,
Giovanni Paolo II consacrò alla Vergine Maria l'intera Chiesa che si
trova in India, «col suo clero e i suoi Religiosi, i suoi diversi riti e
tradizioni liturgiche, i suoi due millenni di esperienza e la sua
gioventù sempre vigorosa». Infine, lo stesso giorno, si accomiatava
dall'India e dalle sue folle, portando con sé a Roma le vivide immagini e
le profonde impressioni spirituali del suo pellegrinaggio in Estremo Oriente, e
tracciandone un primo bilancio durante l'udienza generale del 26 febbraio,
allorché ribadì questo concetto: «Il pellegrinaggio papale
è stato un andare incontro al passato storico, grande e molto
differenziato, dell'India, che risale al terzo millennio avanti Cristo. Questo
passato non è soltanto una storia nel senso etnico, oppure una
manifestazione delle diverse forme di sistemi socio-politici. Prima di tutto
è un grande patrimonio di valore spirituale, nel senso religioso, morale
e culturale. Per un cristiano l'incontro con questo patrimonio culturale
è importante soprattutto perché riguarda il riconoscimento del
primato dello spirito nella vita umana e delle esigenze di natura
morale».
LA PARROCCHIA DELL'OPUS DEI
Il 2 marzo, terza domenica di Quaresima, il Santo
Padre ha voluto visitare un'altra parrocchia della sua diocesi di Roma,
scegliendo quella di S. Eugenio a Valle Giulia. Non si tratta di una parrocchia
qualunque: infatti, la basilica in cui ha sede, edificata in onore del santo
pontefice romano Eugenio I in occasione del venticinquesimo di episcopato del
papa Pio XII (Eugenio Pacelli), è affidata alle cure dei sacerdoti della
Prelatura dell'Opus Dei, sulla quale di tanto in tanto si accendono le polemiche
della stampa mondiale, che parlano di «elenchi segreti» e norme
vincolanti alle quali gli ascritti a tale società si vorrebbero tenuti ad
uniformarsi a scapito della loro fedeltà a istituti secolari o
politici.
Giovanni Paolo II, che ha voluto appunto l'erezione in Prelatura
autonoma dell'Opus Dei, fondata in Spagna da monsignor Escriva de Balaguer,
anche per sottrarla a questo genere di polemiche e fraintendimenti, ha voluto
esprimere ai curatori della parrocchia il suo compiacimento per la singolare
cura da essi dedicata ai corsi di dottrina cristiana per adulti ed alle lezioni
di teologia, dogmatica e morale, e di esegesi biblica e studio dei documenti
pontifici. Ha quindi voluto sottolineare in modo speciale il loro impegno
nell'esercizio regolare e fervoroso per il sacramento della
«riconciliazione» (quello che un tempo si preferiva chiamare
«confessione» o anche «penitenza»): «A questo ministero
- ha detto il Papa - tutti noi sacerdoti dobbiamo dedicarci assiduamente in
forza della vocazione che abbiamo di pastori e servitori dei nostri fratelli.
Desidero perciò confermare, anche in questa circostanza, la grande forza
spirituale che ha per la vita cristiana questo sacramento che avvicina alla
santità di Dio e che, specialmente quando è conferito nella forma
di confessione individuale, consente di ritrovare la propria verità
interiore turbata dal peccato, aiuta a liberarsi nel più profondo di
sé, traccia le vie dell'illuminazione per la coscienza mediante il
discernimento e permette di riacquistare, con la chiara visione della
volontà di Dio, la gioia perduta, nella consolazione di sentirsi
personalmente accolti da un gesto di misericordia».
Dialogando poi con
i giovani della parrocchia, il Santo Padre ha risposto alle loro numerose
domande esortandoli a «dare di più» - come dice una delle loro
canzoni («Io ti darò di più di quello che avrò da
te») - perché «dare di più è la testimonianza
dell'amore», secondo «quella disponibilità che potrebbe
sembrare illogica ma che è invece logica secondo la logica dell'amore: la
possibilità di amare». Infine, a quanti gli avevano chiesto che cosa
avesse imparato in India, ha risposto rimandandoli a un articolo da lui scritto
per «L'osservatore romano» quando era ancora arcivescovo, intitolato
«La verità dell'enciclica», e accomiatandosi così da
loro.
PER SAN GIUSEPPE A PRATO, FRA I LAVORATORI
Il 19 marzo, festività di San Giuseppe,
Sposo di Maria, il Santo Padre si recava a Prato in visita pastorale, e
pronunciava tra l'altro un importante discorso rivolto ai lavoratori di quella
città. «L'attività imprenditoriale - ha detto il Papa -
misura il proprio livello di nobiltà e di moralità, spesso anche
di efficienza, sull'atteggiamento che riserva all'essere umano. La tecnica, il
capitale, il profitto, e tutto ciò che concorre al perfezionamento del
lavoro, sono da apprezzare e da favorire nei limiti in cui tengono presente che
al centro sta l'uomo: è all'uomo che si devono accuratamente subordinare.
L'uomo stesso, che presta la propria opera immerso nell'ingranaggio lavorativo,
è chiamato a valorizzare la propria dignità.»
«Non
poche circostanze - ha aggiunto il Papa - sembrano coalizzarsi in una tenace
cospirazione, come ha notato efficacemente l'operaia che ha preso poco fa la
parola. Ritmi, pesanti, metodi e obiettivi di una produzione chiamata a far
fronte alla concorrenza, vari aspetti della meccanizzazione finiscono a volte
per sottomettere l'uomo al lavoro. Il lavoratore si vede talora così
assorbito dalla macchina da esserne profondamente condizionato. Ha l'impressione
di vivere per lavorare, non di lavorare per vivere».
Richiamando
quindi l'insegnamento dottrinale del Concilio Vaticano II («L'uomo vale
più per quello che è che per quello che ha», ha affermato la
Gaudium et Spes) e risalendo alle più note encicliche sociali, da quella
di Leone XIII alla Laborem exercens, il Santo Padre ha riaffermato che
«occorre tutelare la dignità dell'uomo anche sotto il profilo della
promozione delle condizioni lavorative», le quali «devono essere
strutturate in modo che sia efficacemente agevolata la vocazione della famiglia,
e perché a coloro che hanno concluso le loro prestazioni venga garantito
un vivere decoroso e sereno». Ha poi toccato il drammatico tema della
disoccupazione giovanile: «L'inattività forzata - ha detto con forza
- è una situazione iniqua. È una immobilità che tende a
paralizzare perfino la speranza. Sogni e ideali rischiano di annientarsi in una
morsa avvilente. Il giovane si vede privato della possibilità di farsi
una famiglia. C'è ormai una storia di crisi e di devastazioni
psicologiche e morali, che reclama severe riflessioni».
Anche qui, ha
ricordato il Papa, occorre rifarsi al primo elemento da considerare, che rimane
l'uomo: «Ponendo l'accento sul valore uomo, diventa subito chiaro che non a
lui possono essere addossati con disinvoltura i maggiori costi dell'automazione.
La moderna organizzazione del lavoro va invece studiata e messa in atto
attraverso piani organici che salvaguardino scrupolosamente il diritto dell'uomo
al lavoro. In base a questo criterio, applicato con buona volontà e
lungimiranza, possono essere riassorbite le piaghe della disoccupazione [...]
Questo grande obiettivo - ha concluso il Papa - io mi permetto di riproporre in
particolare alle organizzazioni sindacali, il cui insostituibile compito di
difesa e promozione dei diritti dei lavoratori non può restringersi
semplicemente alla visione di una categoria, ma deve estendersi all'orizzonte
dell'Uomo».
L'INCONTRO CON LA COMUNITÀ EBRAICA ROMANA
Il 13 aprile 1986 il Santo Padre ha incontrato i
rappresentanti della comunità ebraica della città di Roma, guidati
dal Rabbino capo prof. Elio Toaff, all'interno del loro Tempio Maggiore, la
Sinagoga della capitale. È stato un evento di importanza epocale, davvero
storica, che cancellava in qualche modo e risarciva la secolare incomprensione
tra ebrei e cristiani come si era venuta storicamente configurando fino a
culminare nella istituzione vergognosa del Ghetto, voluta a Roma dal papa Paolo
IV Carafa con la Bolla Nimis absurdum del 14 luglio 1555, e durata fino
all'aprile del 1847, allorché i suoi cancelli vennero aperti con motu
proprio del papa Pio IX, in pieno Risorgimento.
Todâ rabbâ,
«grazie tante!», ha esclamato il Papa arrivando nella Sinagoga per
riparare a questa plurisecolare ingiustizia con un gesto insieme paterno e
filiale nei riguardi di quelli che ha definito - dal punto di vista religioso -
come fratelli maggiori nella comune fede in Dio creatore di tutte le cose, nel
Dio d'Israele che è anche il Dio dei cristiani. Ricordando la paterna
figura di papa Giovanni XXIII, che un giorno, passando davanti al Tempio, volle
fermarsi a benedire i fedeli che ne uscivano, Giovanni Paolo II ha dichiarato:
«Questo incontro conclude, in certo modo, dopo il Pontificato di Giovanni
XXIII e il Concilio Vaticano II, un lungo periodo sul quale occorre non
stancarsi di riflettere per trarne gli opportuni insegnamenti. Certo non si
può, né si deve, dimenticare che le circostanze storiche del
passato furono ben diverse da quelle che sono venute faticosamente maturando nei
secoli; alla comune accettazione di una legittima pluralità sul piano
sociale, civile e religioso si è pervenuti con grande difficoltà.
La considerazione dei secolari condizionamenti culturali non potrebbe tuttavia
impedire di riconoscere che gli atti di discriminazione, di ingiustificata
limitazione della libertà religiosa, di oppressione anche sul piano della
libertà civile, nei confronti degli Ebrei, sono stati oggettivamente
manifestazioni gravemente deplorevoli. Sì, ancora una volta, per mezzo
mio, la Chiesa, con le parole del ben noto Decreto Nostra aetate, deplora gli
odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro
gli ebrei in ogni tempo da chiunque; ripeto: da chiunque».
Compiuto
questo doveroso atto di riconciliazione, il Santo Padre ha voluto aggiungere la
condanna del genocidio nazista perpetrato immediatamente prima e durante la
seconda guerra mondiale: «Una parola di esecrazione - ha detto - vorrei
ancora una volta esprimere per il genocidio decretato durante l'ultima guerra
contro il popolo ebraico e che ha portato all'olocausto di milioni di vittime
innocenti. Visitando il 7 giugno 1979 il lager di Auschwitz e raccogliendomi in
preghiera per le tante vittime di diverse nazioni, mi sono soffermato in
particolare dinanzi alla lapide con l'iscrizione in lingua ebraica, manifestando
così i sentimenti del mio animo».
Infine il Papa ha voluto
ricordare con chiarezza come il Concilio Vaticano II ebbe a dichiarare che
«agli Ebrei, come popolo, non può essere imputata alcuna colpa
atavica o collettiva, per ciò che è stato fatto nella passione di
Gesù. Né indistintamente agli Ebrei di quel tempo, né a
quelli venuti dopo, né a quelli di adesso. È quindi inconsistente - ha
concluso il Papa - ogni pretesa giustificazione teologica di misure
discriminatorie, o peggio ancora persecutorie. Il Signore giudicherà
ciascuno secondo le proprie opere, gli Ebrei come i Cristiani».
NEGLI ANTICHI STATI DELLA CHIESA
Al principio di maggio il Santo Padre intraprende
una nuova visita pastorale, che questa volta lo porta nelle Romagne, in quelli
che per secoli furono feudi della Chiesa, governati anche sotto il profilo
civile dalla Sede Apostolica e sottoposti alla sua autorità temporale. È
nozione corrente - fino a diventare luogo comune - che il retaggio di questo
antico governo, da molti definito malgoverno, ecclesiastico abbia incrementato
in quelle popolazioni una disposizione ostile alla Chiesa - una forma
cioè di anticlericalismo - particolarmente virulenta e
ostinata.
Nonostante queste premesse, il viaggio del Papa nelle Romagne
è iniziato sotto i migliori auspici a Forlì, dove lo ha accolto
ufficialmente proprio il segretario del Partito Repubblicano Italiano, erede di
quelle tradizioni anticlericali un tempo così accese, lo storico e
ministro della Difesa senatore Giovanni Spadolini, rispondendo al quale il Papa
ha detto ai convenuti: «Il vostro sincero entusiasmo è di per se
stesso un segno assai eloquente del fatto che tanta acqua è passata sotto
i ponti della storia, con il suo immancabile incrocio di luci e di ombre.
Bisogna risalire a 129 anni fa per ritrovare la visita di un altro Papa in
Romagna e nella città di Forlì, e precisamente a Pio IX, l'ultimo
Pontefice dello Stato Pontificio. Da allora la situazione politica è
profondamente mutata, ed è stata come tale ufficialmente riconosciuta
dalla Chiesa. Oggi io vengo a voi, come sono andato in altre parti d'Italia e
del mondo, in pellegrinaggio pastorale, col solo fine cioè di portare
avanti la missione eminentemente spirituale della Chiesa».
In Romagna
il Santo Padre ha parlato alle suore di clausura (benedettine, clarisse,
domenicane, agostiniane e carmelitane: questi i grandi istituiti contemplativi
rappresentati nella regione), rievocando la fondazione dell'antico monastero di
Santa Umiltà avvenuta in Faenza nel 1266 e collegandola alla più
recente fondazione, quella del monastero della Natività di Maria in
Rimini, dove le clarisse hanno preso ad operare nel 1985.
Il Santo Padre si
è quindi recato a Cesena, sempre nella giornata dell'8 maggio, e ha colto
l'occasione per ricordarne una gloria locale, il papa Pio VII, un monaco
benedettino nativo di questa città col nome di Gregorio Barnaba
Chiaramonti. A Cesena il Papa si è poi incontrato coi monaci benedettini
cassinesi nell'Abbazia di Santa Maria del Monte, che è pure la sede del
prezioso Centro Storico Benedettino Italiano fondato da Padre Leandro Novelli
allo scopo di stimolare e coordinare la ricerca storica sul monachesimo italiano
delle origini.
Il Papa si è poi recato in visita alla Biblioteca
Malatestiana, realizzata e conservata - ha ricordato - grazie alla
collaborazione fra autorità civile e comunità religiosa
francescana, a vantaggio di tutti.
Il 10 maggio Giovanni Paolo II era a
Imola, dove amministrava personalmente il sacramento della Cresima a numerosi
giovanetti, ai quali ha voluto ricordare l'antico culto locale della Madonna del
Piratello, così chiamata perché «era infatti appesa a un
piccolo pero l'immagine dalla quale, prodigiosamente, gli Imolesi furono
invitati ad erigere un santuario a tre miglia dalla città». Altra
tappa del pellegrinaggio papale, la città di Faenza, dove Giovanni Paolo
II non ha mancato di elogiare la locale arte tradizionale della ceramica, e in
particolare l'iconografia sacra che la ceramica faentina ha dato al mondo, come
testimonianza originale del culto e della devozione popolare. A Faenza il Papa
ha anche rivolto un discorso agli agricoltori, quindi si è trasferito a
Brisighella e infine a Ravenna, dove ha incontrato gli operai dell'ANIC,
l'azienda nazionale degli idrocarburi, ai quali ha detto fra l'altro «Ho
saputo com'era la vita in Romagna anni fa, al tempo dell'arginatura dei fiumi:
gli anni della dura fatica degli "scariolanti". Se nel giro di pochissimi
decenni questa terra ha potuto compiere passi così significativi nella
via dello sviluppo sociale ed economico, se città e paesi hanno potuto
rinascere e le famiglie ricuperare un livello di vita degno di uomini, lo si
deve alla capacità di iniziativa e alla laboriosità che accomuna
tutti voi che siete impegnati sul vasto fronte del lavoro: lavoratori,
imprenditori, dirigenti e tecnici, dei vari settori dell'industria,
dell'agricoltura, del commercio, dell'artigianato, della cooperazione, del
turismo».
«Sono venuto in Romagna - ha continuato il Papa - su
invito dei vostri Vescovi, per aiutare le comunità cristiane a prepararsi
al terzo millennio. Ora, questo del rapporto tra sviluppo economico e lavoro -
ha voluto sottolineare - si presenta già come il problema dominante dei
prossimi decenni, e si rivelerà sempre più di importanza
mondiale». Ha quindi rilevato che «il mondo del lavoro non è
tutto nel contratto di lavoro, è anche nell'accordo di amicizia.
Pienamente umano esso diventa solo quando, oltre la zona dell'utile, compare la
fraternità, quella comunione degli animi che è ingrandimento della
vita di ognuno nella partecipazione alla vita degli altri».
A Ravenna,
l'11 maggio, il Santo Padre ha confessato la propria emozione nel prendere per
la prima volta contatto con la città di dove irradiò gli ultimi
bagliori l'Impero Romano d'Occidente nel periodo tumultuoso del suo tragico
tramonto, ricordando la figura del suo primo vescovo, Sant'Apollinare, nel quale
la Chiesa ravennate riconosce il proprio padre spirituale. Poi ha affrontato con
decisione l'argomento scottante al quale tutti lo attendevano: «Conosco -
ha detto - le accese tensioni ideologiche politiche che hanno contribuito,
soprattutto nel secolo scorso e all'inizio dell'attuale, ad appartare dalla
Chiesa alcuni strati della popolazione. Né mi nascondo l'incidenza che in
tale processo ebbe la vicenda storica del potere temporale pontificio. Penso che
oggi, col passaggio di generazioni, dopo la dolorosa esperienza di due grandi
guerre e il cammino di progresso civile e sociale, dopo la felice composizione
della Questione Romana a cui si è aggiunta la grande stagione del
Concilio Vaticano II, gli animi godano di una prospettiva più pacata e
serena, che consenta a tutti di percepire la immagine vera della Chiesa e della
sua missione».
Il Papa si è poi rivolto, nel momento del
commiato, a tutti i giovani della Romagna, invitandoli ad «amare la
comunità come voi stessi» e rivelando che questa sua visita in
Romagna l'aveva desiderata intensamente, dedicandole quattro giorni, il viaggio
più lungo fin'ora fatto in Italia. Prima di ripartire, il Santo Padre
partecipava anche - a Cervia - alla tradizionale cerimonia dello
«sposalizio del mare», accolto e salutato a nome del governo italiano
dal ministro dell'Interno Oscar Luigi Scalfaro, e dichiarando: «Ho
benedetto il mare come si benedice la casa, perché il mare è per
voi lo spazio di casa allargato, il luogo della condivisione delle vicende
cittadine», ed esortando infine tutti gli astanti a vedere anche la
realtà del turismo alla luce di Cristo.
LA NUOVA ENCICLICA SULLO SPIRITO SANTO
Il 30 maggio il Santo Padre diffonde la sua nuova
lettera enciclica sullo Spirito Santo, Dominum et Vivificantem, nella quale
richiama la cristianità alla fede nella Terza Persona della Santissima
Trinità, ininterrottamente professata dalla Chiesa, sulla base delle
Sacre Scritture e dell'incessante magistero pontificio. Suddivisa in tre parti e
in 67 paragrafi, l'Enciclica è scritta, secondo il teologo ortodosso
Olivier Clément, «con una sorta di urgenza escatologica» che
«corrisponde all'idea del fallimento della storia, a ciò che
l'ascesi tradizionale chiama "la memoria della morte" che spesso si trasforma in
"memoria di Dio" del Dio vincitore della morte».
Sono parole e
sentimenti che riecheggiano soprattutto nella terza parte del documento
pontificio, là dove Giovanni Paolo II scrive: «Allo Spirito Santo si
volgono il pensiero e il cuore della Chiesa in questa fine del ventesimo secolo
e nella prospettiva del terzo millennio dalla venuta di Gesù Cristo nel
mondo, mentre guardiamo verso il grande Giubileo con cui la Chiesa
celebrerà l'evento. Tale venuta, infatti, si misura, secondo il computo
del tempo, come un evento che appartiene alla storia dell'uomo sulla terra. La
misura del tempo adoperata comunemente definisce gli anni, i secoli e i millenni
secondo che trascorrano prima o dopo della nascita di Cristo. Ma bisogna anche
tener presente che questo evento significa per noi cristiani, secondo
l'Apostolo, la "pienezza del tempo", perché in esso la storia dell'uomo
è stata completamente penetrata dalla "misura" di Dio stesso: una
trascendente presenza del nunc eterno».
In fase finale, l'Enciclica
passa a specificare quali siano le forme di rifiuto dello Spirito Santo
concretatesi nella storicità contemporanea, e afferma: «Purtroppo,
la resistenza allo Spirito Santo, che San Paolo sottolinea nella dimensione
interiore e soggettiva come tensione, lotta, ribellione che avviene nel cuore
umano, trova nelle varie epoche della storia, e specialmente nell'epoca moderna,
la sua dimensione esteriore concretizzandosi come contenuto della cultura e
della civiltà, come sistema filosofico, come ideologia, come programma di
azione e di formazione dei comportamenti umani. Essa trova la sua massima
espressione nel materialismo, sia nella sua forma teorica - come sistema di
pensiero, sia nella sua forma pratica - come metodo di lettura e di valutazione
dei fatti e come programma, altresì, di condotta corrispondente. Il
sistema che ha dato il massimo sviluppo e ha portato alle estreme conseguenze
operative questa forma di pensiero, di ideologia e di prassi, è il
materialismo dialettico e storico, riconosciuto tuttora come sostanza vitale del
marxismo».
Potrà stupire che il Papa riprenda oggi una
terminologia e una contrapposizione frontale già in qualche modo
largamente superate nella coscienza comune, ma forse occorre vedere in questa
recisa presa di posizione la preoccupazione pastorale di non lasciare la Chiesa
senza precise indicazioni in merito, mentre ancora sono attuali le soluzioni
contrastanti che i diversi sistemi politici offrono per i problemi sociali delle
nazioni. Il Papa passa quindi a considerare con tono molto drammatico e
preoccupato quelli che definisce i «segni di morte» presenti
sull'orizzonte della nostra epoca: l'aborto, l'eutanasia, le guerre, il
terrorismo, e sintetizza così il suo pensiero: «Purtroppo questo
è solo un abbozzo parziale ed incompleto del quadro di morte che si sta
componendo nella nostra epoca, mentre ci avviciniamo sempre di più alla
fine del secondo Millennio cristiano. Dalle tinte fosche della civiltà
materialistica e, in particolare, da quei segni di morte che si moltiplicano nel
quadro sociologico-storico, in cui essa si è attuata, non sale forse una
nuova invocazione, più o meno consapevole, allo Spirito che dà la
vita? In ogni caso - conclude il Papa - anche indipendentemente dall'ampiezza
delle speranze o delle disperazioni umane, come delle illusioni e degli inganni,
derivanti dallo sviluppo dei sistemi materialistici di pensiero e di vita,
rimane la certezza cristiana che lo Spirito soffia dove vuole e che noi
possediamo "le primizie dello Spirito" [...] La nostra difficile epoca ha uno
speciale bisogno della preghiera. Se nel corso della storia - ieri come oggi -
numerosi uomini e donne hanno dato testimonianza dell'importanza della
preghiera, consacrandosi alla lode di Dio e alla vita di orazione soprattutto
nei monasteri con grande vantaggio per la Chiesa, in questi anni va pure
crescendo il numero delle persone che, in movimenti e gruppi sempre più
estesi, mettono al primo posto la preghiera ed in essa cercano il rinnovamento
della vita spirituale. È questo un sintomo significativo e consolante,
giacché da tale esperienza è derivato un reale contributo alla
ripresa della preghiera tra i fedeli, che sono stati aiutati a meglio
considerare lo Spirito Santo come colui che suscita nei cuori un profondo
anelito alla santità».
IL MALE RESTA UN PROBLEMA
Durante l'udienza generale del 3 giugno, il Santo
Padre ha affrontato, commentando la prima lettera di San Pietro, il problema del
male, la cui realtà, ha fatto osservare «costituisce per molti la
principale difficoltà ad accettare la verità sulla Divina
Provvidenza. In alcuni casi questa difficoltà - ha continuato il Papa -
assume forma radicale, quando addirittura si accusa Dio a causa del male e della
sofferenza presenti nel mondo giungendo fino a rifiutare la verità stessa
su Dio è sulla sua esistenza (cioè all'ateismo)». Non
è detto, naturalmente, che chi ritiene incomprensibile la presenza del
male nell'universo voglia con questo mettere in causa l'esistenza stessa di Dio:
solo, rimane perplesso di fronte al suo mistero insondabile, pur senza
rinchiudersi nell'ateismo, a meno che con questo termine si voglia semplicemente
indicare la mancanza di fede nel Dio cristiano, vale a dire in una determinata e
particolare idea di Dio.
Dopo aver stabilito la distinzione consueta tra il
male fisico e il male morale, il Papa ha così proseguito la sua catechesi
sul male: «La sofferenza nasce nell'uomo - ha detto - dall'esperienza di
queste molteplici forme di male. In qualche modo essa può trovarsi anche
negli animali, in quanto sono esseri dotati di sensi e della relativa
sensibilità, ma nell'uomo la sofferenza raggiunge la dimensione propria
delle facoltà spirituali che egli possiede. Si può dire che
nell'uomo la sofferenza è interiorizzata, coscientizzata, sperimentata in
tutta la dimensione del suo essere e delle sue capacità di azione e
reazione, di ricettività e di rigetto; è un'esperienza terribile,
dinanzi alla quale, specialmente quando è senza colpa, l'uomo pone quei
difficili, tormentosi interrogativi, a volte drammatici, che costituiscono ora
una denuncia, ora una sfida, ora un grido di rifiuto di Dio e della sua
Provvidenza. Sono interrogativi e problemi che si possono riassumere
così: come conciliare il male e la sofferenza con quella sollecitudine
paterna, piena d'amore, che Gesù Cristo attribuisce a Dio nel Vangelo?
Come conciliarli con la trascendente sapienza e onnipotenza del Creatore? E in
forma anche più dialettica: possiamo noi, di fronte a tutta l'esperienza
del male che è nel mondo, specialmente di fronte alla sofferenza degli
innocenti, dire che Dio non vuole il male?».
A questi drammatici
interrogativi il Papa confessa: «Anche noi, come Giobbe, sentiamo quanto
sia difficile dare una risposta. La ricerchiamo non in noi, ma con umiltà
e fiducia nella Parola di Dio». E conclude la sua catechesi affermando che
Dio permette il male fisico e il male morale soltanto perché
«l'esistenza degli esseri liberi è per lui un valore più
importante e fondamentale del fatto che quegli stessi esseri abusino della
propria libertà contro il Creatore, e che perciò la libertà
possa portare al male morale». Naturalmente, si potrebbe dire che questa -
più che una spiegazione - è una semplice tautologia, e domandarsi
che razza di libertà sia quella riconosciuta a un essere inferiore il
quale, se l'adopera in maniera diversa dalla scelta del «bene»,
verrà condannato a una pena eterna e separato per sempre (?) dal
Creatore. Ma temiamo che a queste domande né il Papa né Giobbe
potrebbero dare risposta. La risposta, forse, sta nella semplice fede e
nell'abbandono in Dio, o magari in qualche altra dottrina religiosa differente
da quella cattolica, in una di quelle dottrine per le quali il Papa stesso ha
dimostrato recentemente il massimo rispetto e la più grande
tolleranza.
IL VIAGGIO IN COLOMBIA
Il giorno della festa dei Santi Pietro e Paolo, il
giugno 1986, il Santo Padre annunciava il suo nuovo pellegrinaggio apostolico
in Colombia, elencando tutte le tappe che avrebbe toccato in questo importante
Paese dell'America Latina, e precisamente il Santuario Nazionale della Vergine
di Chiquinquirá, e poi Bogotá, Tumaco, Popayán, Cali,
Chinchiná, Medellín, Armero, Bucaramanga, Cartagena e
Barranquilla, dicendosi dispiaciuto di non poter andare di persona in altre
città e luoghi in cui pure era stata richiesta la sua presenza.
Il
viaggio ebbe inizio martedì 1° luglio e fu seguito con molta
attenzione dalla stampa internazionale, finalmente distolta dal campionato
mondiale di calcio e libera di dedicarsi a qualche altro evento. Sbarcando a El
Dorado, l'aeroporto della capitale colombiana, il Papa si è chinato,
com'è sua abitudine, a baciare la terra e ha subito dichiarato:
«Vengo nel vostro nobile Paese come messaggero di evangelizzazione che
innalza la croce di Cristo». Forse le parole non furono le più
ispirate, visto che ricordavano troppo da vicino altri sbarchi e altre croci,
innalzate su quelle terre o su terre affini del continente americano dai grandi
navigatori europei (uno dei quali diede il suo nome proprio alla nazione che
accoglieva ora il Santo Padre) arrivati in veste di conquistatori rapaci in nome
dei loro re «cattolici», spargendo lacrime e sangue senza rimorsi
eccessivi...
Ad ogni modo, non certo agli antichi conquistadores,
bensì semplicemente al suo venerato predecessore papa Paolo VI è
andata subito la memoria del Pontefice, nel ricordo del viaggio compiuto da
Montini a Bogotà il 23 agosto 1968 per presiedere il trentanovesimo
Congresso eucaristico internazionale. Si trattava dunque ora della seconda
visita di un papa in Colombia, una nobile nazione, ha detto Giovanni Paolo II,
provata negli ultimi anni da gravi avvenimenti di natura diversa che hanno fatto
ricadere sui suoi abitanti disgrazie e dolori a volte inenarrabili...
Dopo
una visita alla cattedrale e un incontro coi religiosi e col clero, Wojtyla si
è incontrato nella sede del governo col presidente della Repubblica
Belisario Betancour e la moglie Dona Rosa Helena, vedendo poi in un'altra sala
del palazzo il nuovo presidente eletto Virgilio Barco, che entrerà in
possesso della carica soltanto il 7 di agosto. Infine, salutando le altre
personalità presenti, il Papa ha incontrato anche il capo politico della
guerriglia antigovernativa, Jaime Pardo, presentatosi anch'egli alle elezioni
come candidato alla presidenza.
Due volte, il giorno successivo, papa
Giovanni Paolo II si è rivolto ai guerriglieri ancora operanti nel Paese,
ai quali veniva così concessa una insperata vetrina internazionale, anche
se non precisamente nel senso da essi desiderato. Il Papa ha naturalmente
chiesto loro di deporre immediatamente le armi, dapprima parlando ai giovani
riuniti nel grande stadio di Campìn: «Io grido da qui anche a voi -
ha detto - che avete intrapreso il cammino della guerriglia o nutrite simpatia
per essa: allontanatevi dai cammini dell'odio e della morte, e convertitevi alla
causa della riconciliazione e della pace».
I cronisti del viaggio
papale rilevavano che proprio mentre si recava in cattedrale sulla consueta
«papomobile» blindata il pontefice aveva potuto vedere, in piazza
Simón Bolívar, i segni del fuoco e dei proiettili, le tracce
ancora evidenti della feroce battaglia che pochi mesi prima, nel novembre 1985,
aveva causato 95 morti e undici dispersi al Palazzo di Giustizia occupato da
elementi del movimento terroristico M-19 e liberato dalle forze di polizia
soltanto a prezzo di un massacro. E proprio mentre il Papa pronunciava il suo
appello, si aveva notizia della morte di sette guerriglieri delle FARC (Forze
Armate Rivoluzionarie di Colombia) in uno scontro a fuoco, e di due attentati a
impianti elettrici e petroliferi nel Nord del Paese da parte dell'ELN (Esercito
di Liberazione Nazionale), la formazione filocastrista nella quale militò
a suo tempo il prete cattolico Camilo Torres («lo affido alla misericordia
di Dio», ha detto di lui il Papa). Tra l'altro si è avuta notizia
che i miliziani delle FARC avevano scritto due volte in Vaticano, nei mesi
scorsi, offrendosi di prelevare il Pontefice a Bogotá e di portarlo in
una loro base segreta per esporgli un progetto di mediazione. Alle lettere dei
guerriglieri ha risposto la Nunziatura apostolica, declinando l'invito un po'
troppo romanzesco, ma il Papa non ha rifiutato di benedire, da parte sua, anche
i guerriglieri, purché si rendano disponibili a una evoluzione positiva
della situazione.
Nei suoi discorsi, Giovanni Paolo II ha citato la sua
recente enciclica sullo Spirito Santo e il pressante invito a costruire la pace
in essa contenuto, quindi ha accennato alla importanza della questione sociale
nell'America Latina: «Le relazioni di giustizia e solidarietà - ha
detto - fra ricchi e poveri costituiscono una priorità. È il caso, per i
Paesi del Terzo Mondo e dell'America Latina, del problema del debito verso i
Paesi più ricchi». Era questa la prima volta. che il Papa prendeva
una posizione così esplicita sulla grave questione internazionale:
«è dunque necessario» - ha infatti soggiunto - «arrivare
ad accordi nei quali non tutto rimanga soggetto ad un'economia ferreamente
tributaria delle leggi economiche, senza anima e senza criteri morali. Qui si
iscrive l'obbligo di rispettare una solidarietà internazionale che oggi
ha una particolare incidenza sul problema del debito estero che opprime
l'America Latina e gli altri Paesi del mondo».
A Tumaco, il porto
colombiano sul Pacifico, il Papa ha trovato un pezzo d'Africa, incarnato nei
volti, nei colori e nei ritmi di una popolazione che discende direttamente dagli
schiavi neri importati a suo tempo per lo sfruttamento delle ricche miniere
d'oro. La missione di Tumaco è stata scelta dagli organizzatori del
viaggio papale per l'incontro del Pastore con l'intera Chiesa missionaria della
Colombia. La missione si estende ai confini dell'Ecuador e ha quasi un secolo di
vita. I cronisti descrivono lo scenario suggestivo con il palco del Papa sulle
rive dell'Oceano, adorno di fiori e frutta tipica di queste zone meridionali. Il
luogo dell'incontro è fuori dell'ordinario: la cacha de San Judes, un
campo sportivo ricavato ricoprendo di terra un antico galeone affondato. Sotto
il sole che picchia i presenti cantano il Padre Nostro in currulao, traendo
dalla preghiera cristiana una dolce melopea che ha il sapore dei canti dei loro
antenati ridotti in schiavitù. Il benvenuto al Pontefice viene dato da
Benito Castillo, un poeta popolare nero, e per dissetarsi gli viene porta acqua
di cocco, non essendo consigliabile l'acqua inquinata del luogo.
Giovanni
Paolo II parla dell'emancipazione degli Indios ed esclama: «La Chiesa non
può restare in silenzio né passiva di fronte all'emarginazione di
molti di loro». Per questo, li accompagna validamente e pacificamente,
nello spirito del Vangelo, «in special modo quando si tratta di difendere i
loro legittimi diritti alla proprietà, al lavoro, all'educazione e
partecipazione alla vita pubblica del Paese». Dalla costa del Pacifico
quindi il Santo Padre si sposta a 1700 metri sul livello del mare, raggiungendo
con un volo di 250 chilometri l'antica città coloniale di Popayán,
tutta bianca, ai piedi di un vulcano. Un tempo essa era famosa per le sue
antiche case di stile andaluso: in questa, che è la capitale della
regione più povera del Paese, il Cauca, è in programma l'incontro
del Papa con gli Indios che in questi territori rappresentano poco più
del dodici per cento della popolazione, vale a dire la più alta
percentuale nazionale.
Prima di incontrarsi con gli Indios il Santo Padre
sosta nella cattedrale distrutta quattro volte dal terremoto, l'ultima volta il
marzo del 1983, il giorno di Giovedì Santo... Intanto, migliaia di
Indios lo aspettano su una spianata presso l'aeroporto, e una loro delegazione
si avvicina ai microfoni per esporre i problemi della comunità indigena.
L'oratore rievoca la storia di sofferenza seguita allo sbarco dei
conquistadores: «Cinquecento anni di una storia fatta di silenzio e di
dolore, nel disprezzo, nell'emarginazione del martirio sconosciuto,
perché martirio del popolo indio... Le maestose cime delle Ande, le
pianure e le profonde selve amazzoniche - dice l'oratore - sono testimoni muti
di tante sofferenze e di tante speranze».
Ed ecco una testimonianza di
Silvano Stracca, l'inviato del quotidiano «Avvenire» al seguito del
Papa: «Ricordando più avanti l'espropriazione delle proprie terre da
parte dei latifondisti, l'indio accenna all'intervento in difesa degli indigeni
di settori del clero che per averli difesi sono poi stati accusati di
sovversione. Poco dopo, le parole della traduzione spagnola vengono interrotte
da un sacerdote. Il Papa sembra non comprendere il motivo di ciò, e prima
di iniziare il suo discorso dice: "Mi è stato dato il testo integrale. Lo
leggerò con attenzione". Poi l'indio si avvicina a Giovanni Paolo II
assieme al padre di un sacerdote indigeno, Alvaro Ulcué, ucciso il 10
novembre 1984. Il Papa li abbraccia. Quindi legge il suo discorso. Al termine,
lo speaker annuncia che, per espresso desiderio del Papa, verrà
continuata la lettura del testo spagnolo. L'indio riprende la lettura dal punto
in cui era stato interrotto e sollecita tra l'altro un intervento di Giovanni
Paolo II presso la commissione per i diritti umani». Forse a qualche
lettore potrà tornare in mente la serie delle drammatiche sequenze del
bellissimo film americano intitolato Mission, con Robert De Niro e Jeremy Irons.
Non è improbabile che questo fosse lo spirito dell'evento...
Nel
pomeriggio il Papa fa ritorno a Cali per dir messa, e la sera va a cena con
venti bambini delle parrocchie della città.
SOTTO IL VULCANO
Domenica 6 luglio il Papa è in preghiera ai
piedi del Nevado, il «vulcano assassino» alto 4.500 metri che il 13
novembre del 1985 provocò la morte di 23 mila vittime, coperte da un
diluvio di neve, lava e fango. Il Papa ha pregato in ginocchio ai piedi della
grande croce innalzata sulla spianata di fango dove una volta c'era l'abitato di
Armero: aveva trentamila abitanti, soltanto settemila si salvarono. Scrive sul
«Corriere della sera» Luigi Accàttoli, anch'egli inviato al
seguito del Pontefice: «La preghiera del Papa è stata come un rito
funebre per quei morti che non ebbero tomba né funerale. "Padre celeste -
ha detto il Pontefice mentre il vento gli gonfiava le vesti - ricevi benigno nel
tuo seno misericordioso tanti fratelli nostri qui sepolti dalle forze scatenate
della natura". Le autorità avevano proibito l'accesso ad Armero -
prosegue il cronista - perché il vulcano è ancora in
attività. Il Papa c'è andato in elicottero, c'erano appena
duecento invitati e giornalisti. La scena è stata trasmessa dalla
televisione. Su quella spianata di fango e lava, solcata da crepe, c'era un sole
a 32 gradi. Il Papa ha cercato di dire anche parole di speranza». Poi
Giovanni Paolo II ha affrontato l'altro grave problema della Colombia, quello
della droga. Ne ha parlato la prima volta a Cartagena, paragonando la
schiavitù del tossicomane alla tratta dei negri per la quale la
località fu famosa, poiché vi sbarcavano i galeoni carichi di
deportati dalle coste africane. In tre secoli ne arrivarono così quasi
duecentomila. «Oggi come nel secolo XVII - ha detto il Papa - l'ambizione
del denaro si impadronisce del cuore di molte persone e le trasforma, con il
commercio della droga, in trafficanti della libertà dei loro fratelli,
che rendono schiavi di una schiavitù a volte più terribile di
quella degli schiavi neri. I negrieri impedivano alle loro vittime l'esercizio
della libertà. I trafficanti di droga portano le proprie vittime alla
distruzione stessa della personalità. Dobbiamo lottare con decisione
contro questa nuova forma di schiavitù», ha concluso il Papa. I
trafficanti di droga in Colombia, annota il cronista, sono una potenza
economica: controllano il dieci per cento della ricchezza nazionale; esportando
cocaina e marijuana fanno entrare nel Paese dai 4 ai 5 miliardi di dollari ogni
anno.
A SANTA LUCIA
Il 7 luglio 1986 la visita del Papa nell'America
Centrale si concludeva con uno scalo a Castries, capitale del piccolo Stato di
Santa Lucia (Saint Lucia sulle mappe), indipendente dal 1979 nell'ambito del
Commonwealth Britannico e consistente in un'isola di poco più di 600
chilometri quadrati, abitata in prevalenza da cattolici neri di espressione
franco-creola. Giovanni Paolo II, salutando il Governatore dell'isola e le altre
autorità, si è dichiarato consapevole del fatto che la Chiesa
cattolica ha contribuito in modo molto significativo allo sviluppo di Santa
Lucia, soprattutto nel campo dell'istruzione. Le prime religiose - ha ricordato
più tardi il Papa durante la celebrazione della messa - giunsero a Santa
Lucia nel 1847 e in un solo mese avevano già aperto una scuola per
istruire i giovani. L'opera cattolica si ingrandì sempre più,
finché nel 1956 fu possibile erigere la diocesi di Castries, che dopo
soli diciotto anni veniva elevata al rango di arcidiocesi. Il Papa si congedava
infine dai giovani dell'isola salutandoli nella loro lingua franco-creola
così: Zanfan Bon Dye, pwen kouwaj mete konfyans ou an Bon Dye
(«Figli di Dio, prendete coraggio e riponete la vostra fiducia in
Dio»). Quindi, prendendo il volo dall'aeroporto di Hewanorra, faceva
ritorno a Roma.
CATECHISMO SUGLI ANGELI RIBELLI
Il mese di agosto del 1986 è stato
caratterizzato soprattutto dalla catechesi del Papa sugli angeli ribelli (il 31
luglio aveva parlato degli angeli in generale). Così, nell'udienza
generale del 13 agosto, Giovanni Paolo II, correggendo le tesi ultimamente
invalse anche nel mondo teologico, ha riaffermato l'esistenza di tali misteriose
e superiori creature, soggette a una prova (non sappiamo quale) da parte di Dio
e quindi a una «caduta» che presenta il carattere del «rifiuto di
Dio con il conseguente stato di dannazione» e consiste «nella libera
scelta di quegli spiriti creati, che hanno radicalmente ed irrevocabilmente
rifiutato Dio e il suo regno, usurpando i suoi diritti sovrani e tentando di
sovvertire l'economia della salvezza e lo stesso ordinamento dell'intero
creato».
È difficile, naturalmente, comprendere come delle creature
spirituali, tanto più intelligenti ed elevate dell'uomo, abbiano potuto
precipitare in tale abisso diventando liberamente cattive e perdendo così
la loro felicità originaria: rimane il fatto che chi di loro non
superò la «prova» si mise nella condizione di odiare Dio e
l'uomo per sempre... «Per questo - dice il Papa parlando di Satana - egli
vive nella radicale e irreversibile negazione di Dio e cerca di imporre alla
creazione, agli altri esseri creati a immagine di Dio, ed in particolare agli
uomini, la sua tragica menzogna sul bene che è Dio» (e bisogna pur
dire che anche questa tragica e patetica insistenza in una battaglia perduta non
depone a favore dell'intelligenza dell'angelo decaduto).
Tuttavia,
soggiunge il Papa, esso ha acquistato in una certa misura il dominio sull'uomo,
come effetto del peccato dei nostri progenitori.
Dopo aver ricordato le
diverse allusioni e definizioni scritturali, in cui il Satana viene chiamato il
principe e perfino il dio di questo mondo, il Santo Padre ne ha ricordato anche
i vari nomi, da Belial a Beelzebul e Diavolo. Questa rassegna satanica ha
scatenato sui giornali italiani una serie di osservazioni più o meno
pacchiane circa le forme che Satana avrebbe assunto nell'iconografia e
nell'immaginario popolare (di mostro, di bestia, eccetera), descrizioni
vanamente attribuite al Papa che invece non vi aveva in nessun modo fatto cenno
nella sua catechesi, limitandosi a dire che «l'abilità di Satana nel
mondo è quella di indurre gli uomini a negare la sua esistenza in nome
del razionalismo e di ogni altro sistema di pensiero che cerca tutte le
scappatoie pur di non ammetterne l'opera». Con il che, il cerchio è
chiuso: Satana certamente esiste, e la semplice ipotesi di una sua non-esistenza
costituisce la più sottile delle sue tentazioni...
MESSAGGIO AL MEETING
Il 23 agosto 1986 il Santo Padre si è
rivolto con la consueta cordialità ai giovani organizzatori dell'ormai
tradizionale Meeting di Rimini per la Pace e l'Amicizia, ricordando la sua
personale partecipazione all'edizione del non lontano agosto del 1982, e
congratulandosi per il tema prescelto nell'anno in corso: la comunicazione.
«È questo - ha detto il Papa - un termine che ben esprime una componente
essenziale dell'uomo, e configura al tempo stesso una caratteristica peculiare
dell'epoca in cui viviamo. Si può dire infatti che in tutta la sua storia
l'uomo è sempre stato mosso dal desiderio e dalla ricerca di una sempre
più profonda e intensa comunicazione col proprio simile e con l'Essere
supremo».
Questa esperienza di comunicazione si è oggi dilatata
e approfondita a dismisura grazie all'avvento dei mezzi tecnologici più
moderni; rimane l'esigenza di discernere, nell'immenso e indistinto mare dei
messaggi quotidiani, la attendibilità delle fonti e la correttezza dei
contenuti: «La Chiesa - ha concluso il Papa - nulla ha da temere dallo
sviluppo dei mass media, anzi essa vuole che i suoi figli vi siano impegnati in
prima fila, affinché ciò che è opera dell'uomo sia
veramente al servizio della crescita integrale della persona».
CANCELLATO LO «SCHIAFFO DI ANAGNI»
L'ultimo giorno di agosto del 1986 il Papa lo ha
trascorso in visita nella storica cittadella di Anagni, in provincia di
Frosinone, dove otto secoli fa un suo predecessore ebbe a subire lo storico
affronto di cui parlano le antiche cronache, raccontando di come papa Bonifacio
VIII (per la verità, non certo uno stinco di santo, come si dice...)
ricevette in pieno viso uno schiaffo da parte di Guglielmo di Nogaret,
cancelliere del re di Francia Filippo il Bello. Fu sicuramente un oltraggio,
anche se magari, come qualcuno sostiene, non vi fu un vero schiaffo
«manesco» ma soltanto uno schiaffo, per così dire, morale.
Resta il fatto che dell'episodio si è tramandata memoria sino ad oggi, e
la città di Anagni, ricevendo in pompa magna il Papa che arrivava in
elicottero dalla sua residenza estiva di Castel Gandolfo per la prima volta
nella storia del pontificato, gli ha decretato la cittadinanza onoraria,
festeggiandolo col gonfalone comunale i cui colori (bianco e rosso) sono gli
stessi della bandiera polacca... «Il pensiero - ha detto il Papa
rivolgendosi ad autorità e popolo - corre in questo momento alle epoche
passate e a tante figure storiche: Leone IV, a metà del secolo IX, che
qui si rifugiò per salvare la sua indipendenza; Adriano IV, che
sfidò Federico Barbarossa; Alessandro III. Non si può inoltre non
ricordare Innocenzo III e Alessandro IV, oriundi di questo territorio, e
Gregorio IX, nato ad Anagni come Bonifacio VIII, successore di Celestino V, che
qui subì l'affronto di Guglielmo di Nogaret, regio cancelliere di Filippo
il Bello, e di Sciarra Colonna, che Dante Alighieri ricorda con i celebri versi
del ventesimo canto del Purgatorio. Quanti secoli sono passati! - ha concluso il
Papa - Quante vicende, talora drammatiche e burrascose, si sono succedute sul
quadrante della storia sia civile che ecclesiastica! [...] Possa la mia visita
pastorale alla cara città e alla diocesi di Anagni confermare i vostri
animi nella fede e stimolarvi ad una vita cristiana sempre più impegnata
e fervorosa, aperta alle richieste e alle necessità della comunità
civile, e sensibile alla carità fraterna, per l'amore di Dio, per il bene
della Chiesa e della società, nella reciproca costante
edificazione».
NELLA VAL D'AOSTA
È ben noto quanto al Papa siano care le montagne,
abituato com'era a trascorrervi lunghi periodi di meditazione e di svago fin da
quando era giovane sacerdote nella sua Polonia. Anche da Pontefice, egli cerca
di ritornarvi il più spesso possibile, quando le circostanze se ne
presentino.
Così, il 6 settembre eccolo in Val d'Aosta, tra le cime
più alte e venerabili dell'intera catena delle Alpi, a dichiarare senza
retorica: «Sono lieto di trovarmi qui oggi tra voi, in questi luoghi
stupendi cantati dai poeti, in mezzo a una popolazione forte e coraggiosa che,
con l'influsso dell'ambiente, si è costruita un carattere dalla spiccata
personalità fatta di amore alla bellezza della natura, di rispetto e di
spontanea solidarietà per l'uomo e soprattutto di attaccamento alla fede
del Vangelo. Nel metter piede in questi luoghi - ha poi continuato - colpisce
subito la constatazione di trovarsi in un posto privilegiato, che in breve
spazio di terra raccoglie scenari di così grande bellezza: catene di
monti, nevi, ghiacciai, fiumi, prati, fondovalli. Dal punto di vista delle
dimensioni geografiche, la Val d'Aosta risulta la più piccola regione
italiana, ma in essa si affacciano le cime più alte
d'Europa».
«È un palcoscenico naturale - ha concluso il Papa -
il più adatto a elevare irresistibilmente l'anima in alto, per portarla
alla contemplazione dell'Invisibile, che è lo stesso Autore delle
bellezze della natura». Il Papa ha poi accennato alla lunga storia delle
popolazioni valligiane e al loro spirito di autonomia, elogiando lo Statuto
speciale che ne favorisce la coesistenza armoniosa e il turismo. Ha anche fatto
cenno al santo canonico e arcidiacono di Aosta, San Bernardo di Mentone, il
quale, verso l'anno mille, fondò le chiese e gli ospizi che ora portano
il suo nome, passato anche ai robusti cani soccorritori ben noti a chi si
avventurava in queste montagne fino a un non lontano passato. Il Santo Padre ha
infine ricordato il suo predecessore papa Pio XI, anch'egli familiare con la
montagna e con l'alpinismo, che nel 1923 proclamava protettore degli alpinisti
per l'appunto San Bernardo di Mentone, salutando «tutti coloro che si
dedicano a questo sport accettando le esigenze che esso richiede, qualità
molto apprezzabili come tenacia, padronanza di sé, solidarietà
nelle cordate e gusto della scoperta delle cime».
Il 7 settembre il
Papa ha parlato anche alla cittadinanza di Courmayeur e quindi ha recitato
l'Angelus sopra il Mont Chetif, esaltando nell'omelia l'unità
dell'Europa, particolarmente sensibile su quelle alte cime che si ergono sui
confini di tre nazioni. Ha quindi fatto ritorno ad Aosta, incontrandosi col
clero e coi religiosi locali. La settimana seguente era in visita ad Aprilia,
nella parrocchia dedicata a Maria, Madre della Chiesa. Quindi faceva ritorno a
Castel Gandolfo, ricevendo il Consiglio comunale e le forze dell'ordine della
cittadina. Infine, il 30 settembre 1986, consacrava all'arcangelo San Michele le
sorti di Roma, benedicendone la statua nel giorno della festa dei tre arcangeli
Michele, Gabriele e Raffaele. Il giorno prima, salutando alcuni pellegrini
francesi, aveva preannunciato ufficialmente il suo imminente terzo
pellegrinaggio in terra di Francia, previsto per i giorni dal 4 al 7 ottobre,
nonostante le tenebrose «previsioni» di profeti come Michele
Nostradamus (o piuttosto le incaute interpretazioni dei loro esegeti), secondo
le quali avrebbe corso un grave rischio di vita soffermandosi nella città
di Lione, posta «tra due fiumi», alla confluenza del Rodano e della
Saona.
MISSIONARIO NELLE GALLIE
La trentunesima visita pastorale del Papa fuori
dei confini d'Italia comprendeva alcune tra le tappe più significative
della storia del cristianesimo cattolico europeo, come il villaggio di nascita
del celeberrimo Santo Curato d'Ars, patrono dei sacerdoti, e la basilica
dedicata al Sacro Cuore a Paray-le-Monial, da questo culto assai controverso
eppure divenuto popolarissimo (nel 1786 rischiò di suscitare addirittura
uno scisma in Toscana, dove era malvisto a causa dell'influenza del pensiero
giansenista) ebbe a prendere le mosse dopo le visioni mistiche di Margherita
Maria Alacoque.
Il villaggio di Ars, dove svolse il suo apostolato San
Giovanni Battista Maria Vianney nel secolo scorso, un paesino di appena
settecento anime, teneva il posto d'onore nell'itinerario pontificio. Per
Giovanni Paolo II si è trattato infatti del «prete ideale», al
quale si ispirava la sua condotta fin da quando frequentava il seminario di
Cracovia. «Non abbiamo il diritto di rinunciare a tali modelli - ha detto
il Papa - Non possiamo considerarli sorpassati o inattuali, e meno ancora come
illustrazioni di una teologia a una sola dimensione». Il rimprovero
è appena velato: certo, non sono tanti gli attuali sacerdoti cattolici
che nello stile - almeno esterno - di vita possono ricordare il Santo Curato
d'Ars.
A Paray-le-Monial, nel grande santuario del Sacro Cuore, Giovanni
Paolo II ha parlato a migliaia di cristiani «carismatici», una
realtà nata dopo il Concilio e considerata con molta carità e
prudenza dalla gerarchia ecclesiastica. Sono arrivati dalla Francia e dal
Belgio, dalla Svizzera, dalla Germania e dall'Olanda per questo incontro
«di legittimazione» col Papa, il primo che avvenga nella storia del
suo pontificato, e quindi tanto più significativo e importante. Sullo
sfondo della visita, che ha bloccato per ore e ore il centro di Lione, le
statistiche e le notizie o divagazioni su un possibile attentato (con l'occhio
alle cattive interpretazioni di Nostradamus, come s'è già detto).
Le statistiche dicono comunque che in Francia il 61% dei cittadini non va mai a
messa, il 50% ritiene accettabile l'aborto pur professandosi cattolico e ancora
il 61% sarebbe favorevole anche al sacerdozio delle donne, una prospettiva che
il Papa ha sempre energicamente respinto. Per le vie di Lione si sono visti
anche un centinaio di manifestanti antipapisti appartenenti al gruppo
anticlericale OSTIE (Opposizione alla sottomissione e all'istruzione
ecclesiastica), che si sono scontrati in centro con gruppi di giovani cattolici
tradizionalisti.
IL RADUNO DI ASSISI
Il 26 ottobre il Santo Padre era a Perugia, e il
giorno seguente ad Assisi, dove i rappresentanti delle diverse Chiese e
comunioni cristiane e quelli delle grandi religioni del mondo erano stati da lui
stesso inviati a una grande giornata di preghiera fraterna in comune per la
pace. E di una grande giornata si è trattato, nonostante il vento gelido
che spazzava le vie e le piazze della mistica cittadella di San Francesco,
pacificamente invase dai variopinti abiti cerimoniali di musulmani e buddhisti,
taoisti e confuciani, anglicani e ortodossi, perfino dei pellirosse adoratori
del Grande Spirito delle praterie... Una giornata che ha visto il Papa, uomo tra
gli uomini, seduto in mezzo a tutti gli altri capi religiosi nella sua semplice
veste bianca, senza alcuna distinzione di onori né di posto, invitante
alla preghiera con parole ispirate a un'autentica fratellanza, invocanti
«un vero silenzio interiore». Facciamo di questa giornata una
anticipazione di un mondo pacifico! - ha invocato il Papa - chiedendo una tregua
di 24 ore simile alla medioevale «tregua di Dio» che serviva a
separare per un certo tempo i contendenti. Purtroppo non tutti i moderni
guerreggianti lo hanno ascoltato, com'era da attendersi; ma l'intenzione era
buona, e l'esempio dato ad Assisi è stato luminoso e
duraturo.
AGLI ESTREMI CONFINI DEL MONDO
Martedì 18 novembre, infine, il Santo Padre
intraprendeva il suo trentaduesimo viaggio pastorale fuori dei confini d'Italia,
raggiungendo con un primo balzo di 7.300 chilometri la città di Dacca,
nel Bangladesh. Nel suo complesso questo trentaduesimo viaggio papale
sarà il più lungo tra tutti quelli finora effettuati:
durerà quattordici giorni, toccherà sei diversi Paesi, quasi tutti
nell'emisfero meridionale o australe, e comporterà quasi cinquantamila
chilometri di volo. Ecco dunque Giovanni Paolo II trascorrere senza stanchezza
dal Bangladesh, uno dei Paesi più poveri del pianeta, alla ricca
Singapore, quasi totalmente occidentalizzata; dalle Isole Figi, sperdute nel
mezzo del Pacifico, alla Nuova Zelanda e all'Australia, il Paese-continente
della «nuova società» dove tutto assume dimensioni colossali,
dalle distanze alle realizzazioni sociali. Eccolo infine raggiungere le
minuscole isole Seychelles, nell'Oceano Indiano, dove una crosta superficiale di
turistico benessere copre ma non nasconde antiche e reali condizioni di miseria
e povertà. In tutti questi Paesi così diversi tra loro, il Papa
trascorrerà portandosi dietro come sempre la sua immensa ansia pastoriale
e l'urgenza di confermare nella fede quelle porzioni del popolo di Dio che qui
vivono sovente problemi drammatici e apparentemente senza soluzione. Ma
«con Gesù Cristo non sarete mai soli!» ha loro gridato il Papa,
chiedendo ai «cristiani delusi» della grande Australia di non temere e
di ritornare a casa, dove il Padre comune li aspetta a braccia aperte.
Rispondendo alle domande che gli venivano poste via radio dai bambini di una
scuola, Giovanni Paolo II ha poi riaffermato che la più bella preghiera
del mondo rimane il Padre Nostro, quella stessa che Gesù insegnò
direttamente ai suoi discepoli i quali gli avevano fatto la stessa
domanda.