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PAPI E BEATI - PAPA GIOVANNI PAOLO II - DAL VATICANO AL MONDO

CAPODANNO 1986: INVOCANDO LA PACE

«L'Anno Nuovo appare davanti a noi come una grande incognita, come uno spazio che dovremo riempire con un contenuto, come una prospettiva di avvenimenti sconosciuti e di decisioni da prendere. Come una nuova tappa e un nuovo spazio della lotta del bene e del male a livello di ogni essere umano e insieme a livello della famiglia, della società, delle nazioni: dell'umanità intera». Con queste parole il Santo Padre offriva al Creatore il 1986 appena iniziato, nella sua ispirata omelia centrata sul tema dominante del Capodanno, Giornata mondiale della Pace.
È fin troppo facile osservare che mai come quando più tremendi e insopportabili rombano i rumori di guerra l'umanità si volge al Cielo in cerca del bene insostituibile della pace. Questa paterna sollecitudine è stata propria di tutti gli ultimi Sommi Pontefici, soprattutto quando il mondo venne a trovarsi di fronte alle frustrazioni morali e materiali incommensurabili provocate dalla Grande Guerra e dalla seconda guerra mondiale. L'invocazione altissima di papa Benedetto XV all'epoca del primo conflitto («cessi alfine l'inutile strage!»), i radiomessaggi natalizi di Pio XII esortanti alla pace e la bianca figura di questi, protesa a braccia spalancate come un Cristo sulla croce, quasi a farsi scudo della Città Eterna minacciata dal cielo con bombardamenti sempre più disastrosi, costituiscono le immagini forti che precedono l'ansiosa e costante preoccupazione dei loro successori per questo tema di fondo.
Oggi, dal Medio Oriente all'America Latina, dall'Africa Australe all'Iran, non sono certo i focolai di guerra che mancano sul nostro pianeta; e le visioni impietose di quei lontani conflitti (ma, quando lambiscono il Mediterraneo, neppure tanto lontani) entrano direttamente nelle nostre case quasi ogni giorno per mezzo dello schermo televisivo, e ci provocano nella nostra tranquillità quotidiana, interrogando il nostro senso di umana solidarietà, la nostra coscienza di appartenere a un destino comune. Per questo le parole del Papa, ripetute ancora una volta e rivolte a tutti con ferma intenzione, non costituiscono un augurio formale bensì la promessa di un impegno quotidiano, concreto e costante. L'anno 1986 è stato proclamato dalle Nazioni Unite «anno internazionale della Pace», ci ricorda Giovanni Paolo II: aiutiamo tutti a costruirla, prima di tutto nell'intimo delle coscienze e quindi nell'arengo mondiale, dove, ha ricordato, operano i componenti delle missioni diplomatiche, dei quali va sottolineato il prezioso ruolo svolto a favore della pace e dell'intesa, anche nelle missioni accreditate presso lo Stato della Città del Vaticano. Il Papa concludeva la giornata come di consueto affidando l'anno nuovo a Dio durante la recita comunitaria dell'Angelus.

CATECHESI SULLA CREAZIONE

Nell'udienza generale dell'8 gennaio, papa Wojtyt ha cominciato a sviluppare il tema catechistico scelto per il 1986, vale a dire «il mistero della creazione», quello stesso attorno al quale si affaticano le menti dei ricercatori e dei filosofi, raggiungendo sempre nuovi, clamorosi risultati (vedi le teorie del «Big Bang» primigenio, la scoperta dei quark, delle specie fossili, del DNA...) senza mai ottenere una risposta definitiva, che soltanto la fede può dare. Ma in quale rapporto sta la fede, appunto, con le prospettive della ricerca scientifica? «La domanda sulla creazione - dice il Papa - affiora all'animo di tutti, dell'uomo semplice come del dotto si può dire che la scienza moderna sia nata in stretto collegamento, anche se non sempre in buona armonia, con la verità biblica della creazione. Ed oggi, chiariti meglio i rapporti reciproci fra verità scientifica e verità religiosa, tantissimi scienziati, pur ponendosi legittimamente problemi non piccoli come quelli riguardanti l'evoluzione delle forme viventi, dell'uomo in particolare, o quello circa il finalismo immanente al cosmo stesso nel suo divenire, vanno assumendo un atteggiamento maggiormente partecipe e rispettoso nei confronti della fede cristiana sulla creazione».
Il Papa ha quindi annunciato che la sua catechesi creazionistica proseguirà nelle prossime udienze dando «il debito posto alla Scrittura», ma intanto ha voluto ricordare e valorizzare «la grande tradizione della Chiesa, prima con le espressioni dei Concili e del magistero ordinario», e quindi anche mediata attraverso le «appassionanti e penetranti riflessioni di tanti teologi e pensatori cristiani». E qui, parlando di creazionismo/evoluzionismo, il pensiero di tutti non può non rimandare alla grande e feconda opera scientifico/teologica del padre Teilhard de Chardin, il gesuita «proibito», come fu detto, oggi invece pienamente partecipe della grande, complessiva ricchezza interiore e umana della Chiesa universale. Il Papa, tuttavia, non ha fatto nomi, ma si è limitato ad annunciare: «Rifletteremo sul mistero della chiamata dal nulla di tutta la realtà creata, ammirando insieme l'onnipotenza di Dio e la sorpresa gioiosa di un mondo contingente che esiste in forza di tale onnipotenza».

NEL RICORDO DEL «NUOVO CONCORDATO»

Il 18 gennaio 1986 il Santo Padre si recava in visita ufficiale al Quirinale, dal Presidente della Repubblica Italiana. Rivolgendosi al Capo dello Stato, Francesco Cossiga, non mancava di rievocare con accenti cordiali la sua precedente visita in quella stessa sede, compiuta quando era ancora presidente il senatore Sandro Pertini, il 2 giugno 1984, in occasione della festa della Repubblica. Il Papa ha quindi soggiunto: «La frequenza di questi incontri negli ultimi anni è certo dovuta alla coincidenza di particolari circostanze; tuttavia, non ci si può sottrarre ad una domanda in ordine al loro significato.
Si tratta di un interrogativo che ha aspetti generali ed assume rilievo ogni volta che i rappresentanti della Chiesa si incontrano con quelli di uno Stato. Nel caso dell'Italia, esso presenta caratteristiche singolari e specifiche, a motivo di una vicinanza che è insieme geografica e storica, oggettiva e personale».
Le ragioni di autonomia e di distinzione nelle rispettive funzioni tra l'Italia e il Vaticano - sancite a suo tempo dai Patti Lateranensi (11 febbraio 1929), sono state confermate, ha ricordato il Papa, nell'accordo sottoscritto dal governo italiano il 18 febbraio 1984: «Questo, apportando al Concordato le modificazioni suggerite dalle mutate situazioni storiche e culturali, ha inteso favorire il pacifico e fruttuoso esercizio delle due potestà, che riguardano persone che sono, allo stesso tempo, membri della Chiesa e cittadini dello Stato». Il Papa ha quindi richiamato uno dei più significativi testi conciliari del Vaticano II, quello contenuto nella Costituzione Gaudium et Spes, al paragrafo 76, che afferma: «La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel proprio campo. Tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più efficace quanto meglio coltiveranno una sana collaborazione tra di loro, secondo modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo». «Signor Presidente - ha concluso il Papa - l'accenno all'ospitalità tradizionale del Popolo italiano mi porta quasi naturalmente ad allargare il discorso all'intero patrimonio storico di questa Nazione, che affonda le sue radici nella tradizione cristiana ed è intimamente legata alla presenza della Sede Apostolica. Tale presenza, in quanto evocatrice di memorie storiche e di funzioni provvidenziali, costituisce un perenne richiamo che stimola alla custodia ed allo sviluppo di tale bimillenario patrimonio». Quindi Giovanni Paolo II ha implorato una speciale benedizione celeste sull'Italia, che si apprestava a celebrare il quarantesimo anniversario della fondazione della Repubblica (2 giugno 1946).

NELLA SUA DIOCESI

Il Vescovo di Roma non dimentica la sua diocesi particolare, pur tra le cure della Chiesa universale; così, il 19 gennaio si recava in visita pastorale, come un buon padre, nella parrocchia romana di San Gaetano da Thiene, dove, prendendo spunto dal vangelo domenicale riferito al primo miracolo di Gesù (le nozze di Gana), pronunciava la sua omelia ricordando ai fedeli che l'ambito dell'amore sponsale non deve rimanere chiuso in se stesso, ma deve invece aprirsi al bene della comunità ecclesiale e sociale. «Il fatto - ha detto il Papa - che Gesù di Nazaret abbia iniziato la sua missione messianica a partire da uno sposalizio costituisce pure un riferimento molto eloquente all'Antica Alleanza, come ne dà testimonianza l'odierna prima lettura tratta dal libro del Profeta Isaia».
Dopo aver scelto Israele come sua sposa, unendosi ad essa con alleanza indissolubile, ha spiegato il Papa, il Signore non ha ritirato la sua scelta, nonostante Israele si sia mostrata spesso infedele. L'amore tra gli sposi rappresenta il simbolo di questo grande amore divino, e non può rimanere chiuso fra le pareti domestiche, «poiché l'amore, ogni amore tende per esigenza intrinseca ad espandersi, a diffondere il bene attorno a sé», e dunque si impegna «in responsabilità e legami sempre più vasti, mediante una solidarietà, una disponibilità e una dedizione tali da fare della famiglia una scuola di socialità, perché scuola di umanità ricca e completa».

AL SINDACO DI ROMA

Pochi giorni dopo, il Santo Padre riceveva in Vaticano la visita dei componenti l'amministrazione comunale della sua città e ne traeva profitto per ammonire paternamente i responsabili circa l'importanza della questione morale. Dopo aver ricordato che Roma, «per la sua ricchezza culturale, per i suoi ineguagliabili tesori d'arte, ma soprattutto per il suo altissimo significato spirituale» si può considerare patrimonio dell'intera umanità, il Papa ha voluto notare che «tuttavia Roma ha pure una vita a sé, come città degli uomini che qui sono alle prese col quotidiano, al centro, nelle borgate, nel vasto anello che la circonda e che ad essa confluisce con tutta la gamma dei problemi, gravi e complessi, propri delle grandi aree metropolitane».
I problemi di Roma sono molti, ha suggerito il Papa, e la capitale italiana li condivide con tante altre città del mondo: «Enormi e crescenti appaiono le difficoltà che un'amministrazione efficiente ed organica deve oggi, in ogni città del mondo, quotidianamente affrontare per venire incontro alle esigenze dell'uomo. Non si tratta solo di difficoltà attribuibili a ritardi rispetto al ritmo vertiginoso del progresso moderno, ma anche di esigenze nuove che accompagnano lo stesso sviluppo. Quanto più elevato è il livello di vita sociale raggiunto, tanto più grandi si presentano le difficoltà che occorre ogni giorno affrontare e risolvere».
Ma forse il primo e più grande problema di Roma come di tante altre metropoli sta proprio nella sua straordinaria espansione e agglomerazione urbana, che ha travalicato e travolto le esigenze di una reale e concreta comunità a misura d'uomo. «Ci si può chiedere - ha esclamato il Papa a questo proposito - se siano città dell'uomo le metropoli moderne, e talora gli stessi agglomerati urbani di media grandezza, specie se capitali, dove i problemi diventano più acuti con l'intrecciarsi della rete dei rapporti nazionali e internazionali. Il fenomeno dell'espansione urbanistica incontrollata crea giganteschi alveari, con poco spazio per un vero respiro umano. Il problema della viabilità mette il cittadino nella condizione di un continuo logoramento fisico-psichico. La crisi edilizia costringe varie categorie di persone a vivere in alloggi di fortuna ed ostacola i giovani che vogliono formarsi una famiglia. Il dissesto ecologico, col crescente inquinamento dell'aria e dell'acqua e con l'assordante rumore del traffico, mette a repentaglio la salute, distruggendo la quiete».
«Negli ultimi anni - ha concluso il Papa - sembrano essersi inoltre accentuati fenomeni quali il terrorismo e la violenza di ogni tipo - Roma ne ha fatto ancor di recente una ben triste esperienza - la criminalità comune, l'uso della droga specie nel mondo giovanile e nelle diffuse aree dell'emarginazione: e tutto ciò sia per effetto di oscure trame anche internazionali, sia per il persistere di situazioni irrisolte di ingiustizia e di bisogno, sia infine per la caduta dei grandi, fondamentali valori. Nell'esame di questo panorama dolorosamente negativo, un dato costante appare evidente: la città diventa meno umana là dove si attenua o degrada il senso morale e religioso». Gli amministratori capitolini, sindaco in testa, avranno senza dubbio tratto conforto e sprone dalle opportune indicazioni del Papa sulle carenze della loro città, e si saranno impegnati a porvi rimedio sulla base delle illuminanti esortazioni pontificie.

CONTRO LA SCONFITTA DELL'ABORTO

Ricevendo in udienza, il 25 gennaio, i rappresentanti del Movimento per la Vita, Giovanni Paolo II ha affermato che la Chiesa, in un'epoca storica nella quale la cultura della morte sembra destinata a prevalere, s'impegna a continuare ad illuminare e sollecitare con pastorale insistenza l'opinione pubblica internazionale allo scopo di determinare una inversione di tendenza. «Voglio subito dirvi - ha esordito il Papa - che la vita costituisce uno di quei valori essenziali, per la cui tutela e promozione la società stessa esiste e si articola nelle sue strutture». Ha quindi elevato la sua denuncia in tono alto e forte: «L'eliminazione della vita del nascituro - ha detto - è oggi purtroppo un fenomeno assai diffuso nel mondo, perfino in nazioni di millenarie tradizioni cristiane, come l'Italia. Finanziato col contributo del denaro pubblico, è facilitato dalle leggi umane con un insieme di argomentazioni di cui, in verità, non è difficile vagliare l'inconsistenza e la capziosità. In realtà l'aborto - ha ribadito con forza il Papa - è una grave sconfitta dell'uomo e della società civile. Con esso si sacrifica la vita di un essere umano a beni di valore inferiore, adducendo motivi spesso ispirati da mancanza di coraggio e di fiducia nella vita e talora da desiderio di un malinteso benessere. E lo Stato, anziché intervenire com'è sua missione a difendere l'innocente in pericolo, prevenendone la soppressione e assicurandone, con mezzi adeguati, l'esistenza e la crescita, autorizza ed anzi concorre all'esecuzione di una sentenza di morte. È questa - ha concluso il Papa - una delle conseguenze più preoccupanti del materialismo teorico e pratico, che, negando Dio, finisce per negare anche l'uomo nella sua essenziale dimensione trascendente, ed è un frutto dell'edonismo consumistico, che pone nell'interesse immediato il fine dell'attività umana».

IL VIAGGIO IN INDIA

Durante la recita dell'Angelus, il 26 gennaio , il Santo Padre ha annunciato ai fedeli il suo ennesimo pellegrinaggio pastorale fuori dei confini d'Italia e della stessa Europa, descrivendo così la grande nazione che sarebbe stata la meta del suo viaggio: «Si tratta della seconda nazione del mondo per il numero degli abitanti. L'India è un Paese di culture millenarie, che hanno trovato espressioni letterarie, artistiche, linguistiche, filosofiche, sociali di primissimo ordine e che rimangono ancor vive. Aprendosi alla modernità, e cercando di risolvere i tanti problemi di sviluppo, ha saputo rispettare tale pluralismo culturale».
Il Papa ha quindi fatto cenno all'ampia gamma di tradizioni religiose proprie dell'India: «Questa nobile nazione è conosciuta anche per le sue religioni: l'induismo è praticato dalla maggioranza con varie forme e tradizioni; il sikhismo, il buddhismo e il jainismo sono diffusi in molte regioni. Vi hanno trovato inoltre ospitalità l'islamismo e lo zoroastrismo. Anche il cristianesimo vi è presente fin dai tempi apostolici. Le comunità cristiane dell'India meridionale si gloriano giustamente del nome di "cristiani dell'apostolo San Tommaso". L'opera di zelanti missionari ha reso poi presente la Chiesa in diverse parti del Paese; anche se i cristiani rimangono una infima minoranza, sono però attivi e apprezzati per l'opera che svolgono soprattutto in campo educativo, ospedaliero e assistenziale. Questa convivenza di culture e religioni, di attenzione ai valori spirituali e ai bisogni degli uomini e della società ha facilitato il sorgere di uomini ormai conosciuti dappertutto come Gandhi, Padre della nazione indiana e promotore dei diritti umani mediante metodi pacifici. Mi reco in India - ha poi tenuto a precisare il Santo Padre - come pellegrino di pace, e come Pastore che ha il mandato di confermare i fratelli nella fede, nella unità ecclesiale e nella loro testimonianza a Cristo. In quel grande Paese dove il pellegrinaggio è espressione e mezzo di spiritualità, voglio manifestare rispetto, stima e incoraggiamento a tutti coloro che cercano Dio, che si impegnano nella ricerca della perfezione, che lavorano nel servizio dei fratelli e nella costruzione della pace e della giustizia».

OMAGGIO AL MAHATMA GANDHI

Le attente parole del Papa nei rispetti della complessa realtà indiana fanno quasi presagire quello che sarà il grande raduno di preghiera dei rappresentanti di tutte le religioni del mondo riuniti ad Assisi, di cui parleremo a suo luogo; si noterà come Giovanni Paolo II abbia accuratamente evitato di condannare e anche soltanto di rilevare, le grandi differenze ideologiche e teologiche che distinguono l'India religiosa e politica, dal paganesimo delle sue pratiche spirituali e cerimoniali alla necessità nella quale il governo indiano si è venuto a trovare di prendere in mano in qualche modo il controllo delle nascite nel Paese, promuovendo un'opera di sterilizzazione di massa che ha cominciato a dare i suoi primi risultati e che certo non risulta in linea con gli insegnamenti della morale cattolica tradizionale.
Si è trattato di un gesto coraggioso e quasi rivoluzionario, confermato dai primi incontri che il Papa ha avuto in India nei primi dieci giorni di febbraio, a cominciare da quello con la memoria del Mahatma Gandhi, la «grande anima» dell'immenso Paese, onorando il quale il Pontefice ha inteso celebrare il senso religioso naturalmente presente nell'uomo, qualunque sia la forma ch'esso poi prende nelle particolari situazioni storico-sociali nelle quali s'incarna. Così, appena arrivato a Nuova Delhi, Giovanni Paolo II ha pronunciato un discorso dinanzi al monumento di Gandhi, durante il quale ha detto fra l'altro: «Due giorni fa cadeva il ° anniversario della sua morte. Lui che era vissuto per la non-violenza sembrò sconfitto dalla violenza. Per un breve momento sembrò che la luce fosse spenta. Ma i suoi insegnamenti e l'esempio della sua vita continuano a vivere nella mente e nel cuore di milioni di uomini e di donne [...] Sì, la luce rifulge ancora, e il retaggio del Mahatma Gandhi continua a parlarci. E oggi sono venuto qui, pellegrino di pace, a rendere omaggio al Mahatma Gandhi, eroe dell'umanità.
Da questo luogo, che è legato per sempre alla memoria di questo uomo straordinario, voglio esprimere al popolo dell'India e del mondo la mia profonda convinzione che la pace e la giustizia, delle quali la società contemporanea ha tanto bisogno, saranno conseguite soltanto seguendo la via che era l'essenza stessa del suo insegnamento: il primato dello spirito e la Satyagraha, la verità-forza che vince senza violenza attraverso il dinamismo intrinseco dell'azione giusta. La potenza della verità ci porta a riconoscere con il Mahatma Gandhi la dignità, l'uguaglianza e la solidarietà fraterna di tutti gli esseri umani, e ci incita a rifiutare ogni forma di discriminazione. Ci fa vedere ancora una volta la necessità della reciproca comprensione, dell'accettazione e della collaborazione tra gruppi religiosi nella società pluralista dell'India moderna e in tutto il mondo». Queste parole illuminate e illuminanti, che faranno gridare all'eresia i cattolici tradizionalisti riuniti attorno a figure come quella patetica del vescovo scissionista Marcel Lefèbvre, il Papa le ripeterà altre volte, fino a renderle evidenti nella grande giornata di Assisi, dove tutti i popoli della terra saranno invitati a pregare nelle loro singole religioni la medesima divinità che ognuna trascende.

DIO È PRESENTE IN TUTTE LE CULTURE

La grande catechesi ecumenica di Papa Wojtyla proseguirà il giorno dopo durante la celebrazione della Messa a Dakhi, quando affermerà senza esitare che «Dio è presente nel cuore stesso delle culture umane perché è presente nell'uomo - l'uomo che è creato a sua immagine - e che è l'artefice della cultura. Dio è presente nelle culture dell'India. È stato presente in tutte quelle persone che hanno contribuito con la loro esperienza e aspirazioni alla formulazione di quei valori, usanze, istituzioni e arti che costituiscono il patrimonio culturale di questa antica terra». Quindi il Papa ha ancora ricordato la preziosa opera spirituale e politica di Gandhi, accostandolo alla figura di Madre Teresa di Calcutta e a quella del grande poeta Rabindranath Tagore: «I nobili sforzi di questi uomini e donne dell'India - ha detto - sforzi tendenti a promuovere la liberazione sociale e lo sviluppo umano integrale, sono in sintonia con lo spirito del Vangelo [...] Tanti problemi della vita sociale in India e in tutto il mondo hanno bisogno di affinamento e di purificazione.
Individui e gruppi hanno bisogno di guarigione e di riconciliazione. Ignoranza e pregiudizio devono essere sostituiti da tolleranza e comprensione. Indifferenza e lotta di classi devono trasformarsi in fratellanza e servizio impegnato. Le discriminazioni basate sulla razza, sul colore, sul credo, sul sesso o sull'origine etnica devono essere rifiutate come del tutto incompatibili con la dignità umana». Sono parole e concetti memorabili sulla bocca di un Papa, anche se restano ancora troppo sovente pure petizioni di principio. Ma è pur sempre dalle affermazioni di principio che incomincia la pratica concreta della tolleranza e della verità.
Lo stesso giorno 2 febbraio, ai fedeli di diverse religioni riuniti per ascoltarlo parlare, il Papa si è rivolto citando l'ex presidente indiano Sarvepalli Radhakrishnan, e ribadendo i concetti di collaborazione e amore interconfessionale che già aveva esposto in precedenza: «Nel mondo odierno, vi è l'esigenza che tutte le religioni collaborino per la causa dell'umanità, e che lo facciano nell'ottica della natura spirituale dell'uomo. Oggi, come Indù, Musulmani, Sikh, Buddhisti, Jainiani, Parsi e Cristiani, ci riuniamo in fraterno amore per asserire ciò con la nostra stessa presenza. Nel proclamare la verità sull'uomo, insistiamo sul fatto che la ricerca di un benessere temporale e sociale e di una piena dignità umana da parte dell'uomo corrisponde all'anelito profondo della sua natura spirituale. [...] Questa collaborazione inter-religiosa deve anche occuparsi della lotta per eliminare la fame, la povertà, l'ignoranza, la persecuzione, la discriminazione e qualsiasi forma di schiavitù dello spirito umano [...] Questo è l'umanesimo che ci unisce oggi e che c'invita a una collaborazione fraterna. Questo è l'umanesimo che offriamo a tutti i giovani presenti qui oggi e a tutti i giovani del mondo. Questo è l'umanesimo al quale l'India può dare un imperituro contributo».

NELLA CASA DI MADRE TERESA

L'accorata e commossa visita del Papa al Nirmal Hriday di Calcutta, dove operano le figlie di Madre Teresa, è stata certamente uno dei punti forti del viaggio apostolico in India, e le immagini che hanno fatto il giro del mondo hanno reso partecipi milioni di persone del messaggio di fratellanza e di amore che quest'opera rappresenta.
«Nirmal Hriday - ha detto il Pontefice dopo essere passato tra i giacigli degli incurabili, molti dei quali lo invocavano piangendo perché tornasse a trovarli - è un luogo di sofferenza, un centro che conosce molto bene l'angoscia e il dolore, una casa per gl'incurabili. Ma, nello stesso tempo, Nirmal Hriday è un luogo di speranza, un centro costruito con fede e coraggio, una casa dove regna l'amore, una casa piena di amore».
«A Nirmal Hriday - ha proseguito commosso il Papa - il mistero della sofferenza umana incontra il mistero della fede e dell'amore. Ed in questo incontro sono le più profonde questioni dell'esistenza umana a farsi sentire. Il corpo sofferente e lo spirito gridano: "Perché? Perché morire?". E la risposta che ottengono, spesso dettata dal silenzio della benevolenza e della compassione, è ricca di onestà e di fede: lo non posso dare una risposta esauriente a tutte queste vostre domande; io non posso alleggerirvi di tutto il vostro dolore. Ma di questo sono sicuro: Dio vi ama con un amore infinito. Voi siete esseri preziosi per lui. Anche io vi amo in lui. Perché in Dio noi siamo realmente fratelli e sorelle». Sono parole che fanno meditare e che costituiscono a loro volta una novità clamorosa rispetto alle orgogliose affermazioni di una religione trionfalistica ancora in vigore fino a non molto tempo addietro dalle parti di Roma. Ha concluso il Papa: «Nirmal Hriday attesta la profonda dignità di ogni essere umano. La cura amorevole che qui vediamo testimonia la certezza che il valore di un essere umano non è misurato con la utilità dell'ingegno, con la salute o con l'infermità, con l'età, il credo o la razza. La nostra dignità umana ci viene da Dio nostro creatore, a cui immagine siamo stati creati. Nessuna privazione o sofferenza potrà mai rimuovere questa dignità».

UNA NUOVA CIVILTÀ STA LOTTANDO PER NASCERE

Il 3 febbraio 1986, dopo la visita alla casa dei moribondi di Kalighat, il Santo Padre così si è rivolto alle autorità religiose dell'India e in particolare della città di Calcutta, in cui si trovava: «Io sono fermamente convinto che proprio come tutti gli esseri umani sono uniti nell'esperienza del dolore e della sofferenza, così anche tutti gli uomini e le donne di buona volontà che sono alla guida nel campo dell'impegno intellettuale ed artistico devono unirsi in una nuova solidarietà per rispondere alle sfide fondamentali dei nostri tempi. [...] La nuova situazione nella quale i progressi della conoscenza e della tecnologia hanno posto la famiglia umana richiede una visione e una saggezza pari al meglio di quanto l'umanità ha prodotto sotto la guida dei suoi santi e dei suoi saggi. Una nuova civiltà sta lottando per nascere: una civiltà di comprensione e rispetto per l'inalienabile dignità di ciascuna persona umana creata ad immagine di Dio, una civiltà di giustizia e pace in cui vi sia ampio spazio per le legittime differenze ed in cui le dispute possano essere risolte mediante un dialogo illuminato e non tramite il conflitto [...] Si apre qui un campo immenso di dialogo tra varie filosofie e tradizioni religiose in risposta a queste domande, e di mutua collaborazione alla ricerca di una risposta concreta alla sfida dello sviluppo e dell'assistenza, in particolare ai più poveri. I santi ed i veri uomini e le vere donne di religione sono sempre stati mossi da una potente e attiva compassione per i poveri e i sofferenti. Ai nostri giorni, allo stesso modo in cui cerchiamo di dare sollievo alle pene dei singoli e dei gruppi, la nostra coscienza religiosa e sociale si trova di fronte alla sfida posta dal problema inevitabilmente sollevato dalla crescente diseguaglianza tra le aree sviluppate e quelle che sono sempre più dipendenti, e dall'ingiustizia consistente nel fatto che molte delle risorse necessarie vengono incanalate nella produzione di terrificanti armi di morte e di distruzione».
Il Papa ha proseguito citando il pensiero del saggio indiano Swami Vivekananda e un passo delle Upanishad, libro sacro dell'induismo: «Solo la verità trionfa». Il servizio reso agli uomini è servizio reso a Dio, ha concluso il Pontefice, e si è rivolto alla comunità cattolica del Bengala e dell'intera India per esortarla a operare generosamente in vista della fraterna solidarietà coi più poveri e dimenticati fra gli uomini.

LE ALTRE TAPPE DEL VIAGGIO IN INDIA

Nei giorni seguenti il Santo Padre, proseguendo nel suo pellegrinaggio apostolico in questo Paese di nobili e antiche tradizioni, visitava la basilica di San Tommaso Apostolo a Madras, dove s'incontrava con l'arcivescovo Arulappa e con esponenti religiosi di diverse confessioni non-cristiane, ai quali riconfermava la sua profonda convinzione che «l'India è davvero la culla di antiche tradizioni religiose [...] Le vostre meditazioni sull'invisibile e lo spirituale hanno lasciato un segno profondo nel mondo». Quindi il Papa si è recato a Mangalore e nella colonia portoghese di Velha Goa, dove, il 6 febbraio, in un incontro coi sacerdoti cattolici, ha parlato loro dei guru indiani, maestri spirituali che rivestono un ruolo preminente nella trasmissione e nello sviluppo delle verità religiose.
Le ulteriori tappe del pellegrinaggio portarono il Papa a Conchin e a Trichur, dove il 7 febbraio partecipò a un incontro di preghiera con il vescovo mons. Kundukulam, inviando un saluto alle comunità e alle diocesi di rito siro-malabarico, esaltando la lotta delle famiglie cristiane del Kerala per essere sempre comunità di amore e solidarietà. Lo stesso giorno, il 7 febbraio, il Papa s'incontrava a Kottayam con il cathòlicos (il vescovo) siro-ortodosso di Antiochia, ricordandogli che «ogni divisione tra i cristiani è di ostacolo alla diffusione del Vangelo» e rievocando l'impegno preso col patriarca della medesima Chiesa Siro-Ortodossa, Sua Santità Zakka Iwas I, due anni prima a Roma, «di fare tutto ciò che è nelle nostre capacità per realizzare la piena comunione visibile tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Siro-Ortodossa di Antiochia».
Trivandrum, Vasai e Bombay furono le ultime tappe del lungo viaggio. In quest'ultima città, il Papa visitò la cattedrale, il giorno 9 febbraio, e tenne un'omelia nel grande parco Shivaji, esaltando dinanzi a migliaia di persone l'amore coniugale che ha il suo modello nell'amore di Cristo per la Chiesa. Al termine della messa, Giovanni Paolo II consacrò alla Vergine Maria l'intera Chiesa che si trova in India, «col suo clero e i suoi Religiosi, i suoi diversi riti e tradizioni liturgiche, i suoi due millenni di esperienza e la sua gioventù sempre vigorosa». Infine, lo stesso giorno, si accomiatava dall'India e dalle sue folle, portando con sé a Roma le vivide immagini e le profonde impressioni spirituali del suo pellegrinaggio in Estremo Oriente, e tracciandone un primo bilancio durante l'udienza generale del 26 febbraio, allorché ribadì questo concetto: «Il pellegrinaggio papale è stato un andare incontro al passato storico, grande e molto differenziato, dell'India, che risale al terzo millennio avanti Cristo. Questo passato non è soltanto una storia nel senso etnico, oppure una manifestazione delle diverse forme di sistemi socio-politici. Prima di tutto è un grande patrimonio di valore spirituale, nel senso religioso, morale e culturale. Per un cristiano l'incontro con questo patrimonio culturale è importante soprattutto perché riguarda il riconoscimento del primato dello spirito nella vita umana e delle esigenze di natura morale».

LA PARROCCHIA DELL'OPUS DEI

Il 2 marzo, terza domenica di Quaresima, il Santo Padre ha voluto visitare un'altra parrocchia della sua diocesi di Roma, scegliendo quella di S. Eugenio a Valle Giulia. Non si tratta di una parrocchia qualunque: infatti, la basilica in cui ha sede, edificata in onore del santo pontefice romano Eugenio I in occasione del venticinquesimo di episcopato del papa Pio XII (Eugenio Pacelli), è affidata alle cure dei sacerdoti della Prelatura dell'Opus Dei, sulla quale di tanto in tanto si accendono le polemiche della stampa mondiale, che parlano di «elenchi segreti» e norme vincolanti alle quali gli ascritti a tale società si vorrebbero tenuti ad uniformarsi a scapito della loro fedeltà a istituti secolari o politici.
Giovanni Paolo II, che ha voluto appunto l'erezione in Prelatura autonoma dell'Opus Dei, fondata in Spagna da monsignor Escriva de Balaguer, anche per sottrarla a questo genere di polemiche e fraintendimenti, ha voluto esprimere ai curatori della parrocchia il suo compiacimento per la singolare cura da essi dedicata ai corsi di dottrina cristiana per adulti ed alle lezioni di teologia, dogmatica e morale, e di esegesi biblica e studio dei documenti pontifici. Ha quindi voluto sottolineare in modo speciale il loro impegno nell'esercizio regolare e fervoroso per il sacramento della «riconciliazione» (quello che un tempo si preferiva chiamare «confessione» o anche «penitenza»): «A questo ministero - ha detto il Papa - tutti noi sacerdoti dobbiamo dedicarci assiduamente in forza della vocazione che abbiamo di pastori e servitori dei nostri fratelli. Desidero perciò confermare, anche in questa circostanza, la grande forza spirituale che ha per la vita cristiana questo sacramento che avvicina alla santità di Dio e che, specialmente quando è conferito nella forma di confessione individuale, consente di ritrovare la propria verità interiore turbata dal peccato, aiuta a liberarsi nel più profondo di sé, traccia le vie dell'illuminazione per la coscienza mediante il discernimento e permette di riacquistare, con la chiara visione della volontà di Dio, la gioia perduta, nella consolazione di sentirsi personalmente accolti da un gesto di misericordia».
Dialogando poi con i giovani della parrocchia, il Santo Padre ha risposto alle loro numerose domande esortandoli a «dare di più» - come dice una delle loro canzoni («Io ti darò di più di quello che avrò da te») - perché «dare di più è la testimonianza dell'amore», secondo «quella disponibilità che potrebbe sembrare illogica ma che è invece logica secondo la logica dell'amore: la possibilità di amare». Infine, a quanti gli avevano chiesto che cosa avesse imparato in India, ha risposto rimandandoli a un articolo da lui scritto per «L'osservatore romano» quando era ancora arcivescovo, intitolato «La verità dell'enciclica», e accomiatandosi così da loro.

PER SAN GIUSEPPE A PRATO, FRA I LAVORATORI

Il 19 marzo, festività di San Giuseppe, Sposo di Maria, il Santo Padre si recava a Prato in visita pastorale, e pronunciava tra l'altro un importante discorso rivolto ai lavoratori di quella città. «L'attività imprenditoriale - ha detto il Papa - misura il proprio livello di nobiltà e di moralità, spesso anche di efficienza, sull'atteggiamento che riserva all'essere umano. La tecnica, il capitale, il profitto, e tutto ciò che concorre al perfezionamento del lavoro, sono da apprezzare e da favorire nei limiti in cui tengono presente che al centro sta l'uomo: è all'uomo che si devono accuratamente subordinare. L'uomo stesso, che presta la propria opera immerso nell'ingranaggio lavorativo, è chiamato a valorizzare la propria dignità.»
«Non poche circostanze - ha aggiunto il Papa - sembrano coalizzarsi in una tenace cospirazione, come ha notato efficacemente l'operaia che ha preso poco fa la parola. Ritmi, pesanti, metodi e obiettivi di una produzione chiamata a far fronte alla concorrenza, vari aspetti della meccanizzazione finiscono a volte per sottomettere l'uomo al lavoro. Il lavoratore si vede talora così assorbito dalla macchina da esserne profondamente condizionato. Ha l'impressione di vivere per lavorare, non di lavorare per vivere».
Richiamando quindi l'insegnamento dottrinale del Concilio Vaticano II («L'uomo vale più per quello che è che per quello che ha», ha affermato la Gaudium et Spes) e risalendo alle più note encicliche sociali, da quella di Leone XIII alla Laborem exercens, il Santo Padre ha riaffermato che «occorre tutelare la dignità dell'uomo anche sotto il profilo della promozione delle condizioni lavorative», le quali «devono essere strutturate in modo che sia efficacemente agevolata la vocazione della famiglia, e perché a coloro che hanno concluso le loro prestazioni venga garantito un vivere decoroso e sereno». Ha poi toccato il drammatico tema della disoccupazione giovanile: «L'inattività forzata - ha detto con forza - è una situazione iniqua. È una immobilità che tende a paralizzare perfino la speranza. Sogni e ideali rischiano di annientarsi in una morsa avvilente. Il giovane si vede privato della possibilità di farsi una famiglia. C'è ormai una storia di crisi e di devastazioni psicologiche e morali, che reclama severe riflessioni».
Anche qui, ha ricordato il Papa, occorre rifarsi al primo elemento da considerare, che rimane l'uomo: «Ponendo l'accento sul valore uomo, diventa subito chiaro che non a lui possono essere addossati con disinvoltura i maggiori costi dell'automazione. La moderna organizzazione del lavoro va invece studiata e messa in atto attraverso piani organici che salvaguardino scrupolosamente il diritto dell'uomo al lavoro. In base a questo criterio, applicato con buona volontà e lungimiranza, possono essere riassorbite le piaghe della disoccupazione [...] Questo grande obiettivo - ha concluso il Papa - io mi permetto di riproporre in particolare alle organizzazioni sindacali, il cui insostituibile compito di difesa e promozione dei diritti dei lavoratori non può restringersi semplicemente alla visione di una categoria, ma deve estendersi all'orizzonte dell'Uomo».

L'INCONTRO CON LA COMUNITÀ EBRAICA ROMANA

Il 13 aprile 1986 il Santo Padre ha incontrato i rappresentanti della comunità ebraica della città di Roma, guidati dal Rabbino capo prof. Elio Toaff, all'interno del loro Tempio Maggiore, la Sinagoga della capitale. È stato un evento di importanza epocale, davvero storica, che cancellava in qualche modo e risarciva la secolare incomprensione tra ebrei e cristiani come si era venuta storicamente configurando fino a culminare nella istituzione vergognosa del Ghetto, voluta a Roma dal papa Paolo IV Carafa con la Bolla Nimis absurdum del 14 luglio 1555, e durata fino all'aprile del 1847, allorché i suoi cancelli vennero aperti con motu proprio del papa Pio IX, in pieno Risorgimento.
Todâ rabbâ, «grazie tante!», ha esclamato il Papa arrivando nella Sinagoga per riparare a questa plurisecolare ingiustizia con un gesto insieme paterno e filiale nei riguardi di quelli che ha definito - dal punto di vista religioso - come fratelli maggiori nella comune fede in Dio creatore di tutte le cose, nel Dio d'Israele che è anche il Dio dei cristiani. Ricordando la paterna figura di papa Giovanni XXIII, che un giorno, passando davanti al Tempio, volle fermarsi a benedire i fedeli che ne uscivano, Giovanni Paolo II ha dichiarato: «Questo incontro conclude, in certo modo, dopo il Pontificato di Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II, un lungo periodo sul quale occorre non stancarsi di riflettere per trarne gli opportuni insegnamenti. Certo non si può, né si deve, dimenticare che le circostanze storiche del passato furono ben diverse da quelle che sono venute faticosamente maturando nei secoli; alla comune accettazione di una legittima pluralità sul piano sociale, civile e religioso si è pervenuti con grande difficoltà. La considerazione dei secolari condizionamenti culturali non potrebbe tuttavia impedire di riconoscere che gli atti di discriminazione, di ingiustificata limitazione della libertà religiosa, di oppressione anche sul piano della libertà civile, nei confronti degli Ebrei, sono stati oggettivamente manifestazioni gravemente deplorevoli. Sì, ancora una volta, per mezzo mio, la Chiesa, con le parole del ben noto Decreto Nostra aetate, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo da chiunque; ripeto: da chiunque».
Compiuto questo doveroso atto di riconciliazione, il Santo Padre ha voluto aggiungere la condanna del genocidio nazista perpetrato immediatamente prima e durante la seconda guerra mondiale: «Una parola di esecrazione - ha detto - vorrei ancora una volta esprimere per il genocidio decretato durante l'ultima guerra contro il popolo ebraico e che ha portato all'olocausto di milioni di vittime innocenti. Visitando il 7 giugno 1979 il lager di Auschwitz e raccogliendomi in preghiera per le tante vittime di diverse nazioni, mi sono soffermato in particolare dinanzi alla lapide con l'iscrizione in lingua ebraica, manifestando così i sentimenti del mio animo».
Infine il Papa ha voluto ricordare con chiarezza come il Concilio Vaticano II ebbe a dichiarare che «agli Ebrei, come popolo, non può essere imputata alcuna colpa atavica o collettiva, per ciò che è stato fatto nella passione di Gesù. Né indistintamente agli Ebrei di quel tempo, né a quelli venuti dopo, né a quelli di adesso. È quindi inconsistente - ha concluso il Papa - ogni pretesa giustificazione teologica di misure discriminatorie, o peggio ancora persecutorie. Il Signore giudicherà ciascuno secondo le proprie opere, gli Ebrei come i Cristiani».

NEGLI ANTICHI STATI DELLA CHIESA

Al principio di maggio il Santo Padre intraprende una nuova visita pastorale, che questa volta lo porta nelle Romagne, in quelli che per secoli furono feudi della Chiesa, governati anche sotto il profilo civile dalla Sede Apostolica e sottoposti alla sua autorità temporale. È nozione corrente - fino a diventare luogo comune - che il retaggio di questo antico governo, da molti definito malgoverno, ecclesiastico abbia incrementato in quelle popolazioni una disposizione ostile alla Chiesa - una forma cioè di anticlericalismo - particolarmente virulenta e ostinata.
Nonostante queste premesse, il viaggio del Papa nelle Romagne è iniziato sotto i migliori auspici a Forlì, dove lo ha accolto ufficialmente proprio il segretario del Partito Repubblicano Italiano, erede di quelle tradizioni anticlericali un tempo così accese, lo storico e ministro della Difesa senatore Giovanni Spadolini, rispondendo al quale il Papa ha detto ai convenuti: «Il vostro sincero entusiasmo è di per se stesso un segno assai eloquente del fatto che tanta acqua è passata sotto i ponti della storia, con il suo immancabile incrocio di luci e di ombre. Bisogna risalire a 129 anni fa per ritrovare la visita di un altro Papa in Romagna e nella città di Forlì, e precisamente a Pio IX, l'ultimo Pontefice dello Stato Pontificio. Da allora la situazione politica è profondamente mutata, ed è stata come tale ufficialmente riconosciuta dalla Chiesa. Oggi io vengo a voi, come sono andato in altre parti d'Italia e del mondo, in pellegrinaggio pastorale, col solo fine cioè di portare avanti la missione eminentemente spirituale della Chiesa».
In Romagna il Santo Padre ha parlato alle suore di clausura (benedettine, clarisse, domenicane, agostiniane e carmelitane: questi i grandi istituiti contemplativi rappresentati nella regione), rievocando la fondazione dell'antico monastero di Santa Umiltà avvenuta in Faenza nel 1266 e collegandola alla più recente fondazione, quella del monastero della Natività di Maria in Rimini, dove le clarisse hanno preso ad operare nel 1985.
Il Santo Padre si è quindi recato a Cesena, sempre nella giornata dell'8 maggio, e ha colto l'occasione per ricordarne una gloria locale, il papa Pio VII, un monaco benedettino nativo di questa città col nome di Gregorio Barnaba Chiaramonti. A Cesena il Papa si è poi incontrato coi monaci benedettini cassinesi nell'Abbazia di Santa Maria del Monte, che è pure la sede del prezioso Centro Storico Benedettino Italiano fondato da Padre Leandro Novelli allo scopo di stimolare e coordinare la ricerca storica sul monachesimo italiano delle origini.
Il Papa si è poi recato in visita alla Biblioteca Malatestiana, realizzata e conservata - ha ricordato - grazie alla collaborazione fra autorità civile e comunità religiosa francescana, a vantaggio di tutti.
Il 10 maggio Giovanni Paolo II era a Imola, dove amministrava personalmente il sacramento della Cresima a numerosi giovanetti, ai quali ha voluto ricordare l'antico culto locale della Madonna del Piratello, così chiamata perché «era infatti appesa a un piccolo pero l'immagine dalla quale, prodigiosamente, gli Imolesi furono invitati ad erigere un santuario a tre miglia dalla città». Altra tappa del pellegrinaggio papale, la città di Faenza, dove Giovanni Paolo II non ha mancato di elogiare la locale arte tradizionale della ceramica, e in particolare l'iconografia sacra che la ceramica faentina ha dato al mondo, come testimonianza originale del culto e della devozione popolare. A Faenza il Papa ha anche rivolto un discorso agli agricoltori, quindi si è trasferito a Brisighella e infine a Ravenna, dove ha incontrato gli operai dell'ANIC, l'azienda nazionale degli idrocarburi, ai quali ha detto fra l'altro «Ho saputo com'era la vita in Romagna anni fa, al tempo dell'arginatura dei fiumi: gli anni della dura fatica degli "scariolanti". Se nel giro di pochissimi decenni questa terra ha potuto compiere passi così significativi nella via dello sviluppo sociale ed economico, se città e paesi hanno potuto rinascere e le famiglie ricuperare un livello di vita degno di uomini, lo si deve alla capacità di iniziativa e alla laboriosità che accomuna tutti voi che siete impegnati sul vasto fronte del lavoro: lavoratori, imprenditori, dirigenti e tecnici, dei vari settori dell'industria, dell'agricoltura, del commercio, dell'artigianato, della cooperazione, del turismo».
«Sono venuto in Romagna - ha continuato il Papa - su invito dei vostri Vescovi, per aiutare le comunità cristiane a prepararsi al terzo millennio. Ora, questo del rapporto tra sviluppo economico e lavoro - ha voluto sottolineare - si presenta già come il problema dominante dei prossimi decenni, e si rivelerà sempre più di importanza mondiale». Ha quindi rilevato che «il mondo del lavoro non è tutto nel contratto di lavoro, è anche nell'accordo di amicizia. Pienamente umano esso diventa solo quando, oltre la zona dell'utile, compare la fraternità, quella comunione degli animi che è ingrandimento della vita di ognuno nella partecipazione alla vita degli altri».
A Ravenna, l'11 maggio, il Santo Padre ha confessato la propria emozione nel prendere per la prima volta contatto con la città di dove irradiò gli ultimi bagliori l'Impero Romano d'Occidente nel periodo tumultuoso del suo tragico tramonto, ricordando la figura del suo primo vescovo, Sant'Apollinare, nel quale la Chiesa ravennate riconosce il proprio padre spirituale. Poi ha affrontato con decisione l'argomento scottante al quale tutti lo attendevano: «Conosco - ha detto - le accese tensioni ideologiche politiche che hanno contribuito, soprattutto nel secolo scorso e all'inizio dell'attuale, ad appartare dalla Chiesa alcuni strati della popolazione. Né mi nascondo l'incidenza che in tale processo ebbe la vicenda storica del potere temporale pontificio. Penso che oggi, col passaggio di generazioni, dopo la dolorosa esperienza di due grandi guerre e il cammino di progresso civile e sociale, dopo la felice composizione della Questione Romana a cui si è aggiunta la grande stagione del Concilio Vaticano II, gli animi godano di una prospettiva più pacata e serena, che consenta a tutti di percepire la immagine vera della Chiesa e della sua missione».
Il Papa si è poi rivolto, nel momento del commiato, a tutti i giovani della Romagna, invitandoli ad «amare la comunità come voi stessi» e rivelando che questa sua visita in Romagna l'aveva desiderata intensamente, dedicandole quattro giorni, il viaggio più lungo fin'ora fatto in Italia. Prima di ripartire, il Santo Padre partecipava anche - a Cervia - alla tradizionale cerimonia dello «sposalizio del mare», accolto e salutato a nome del governo italiano dal ministro dell'Interno Oscar Luigi Scalfaro, e dichiarando: «Ho benedetto il mare come si benedice la casa, perché il mare è per voi lo spazio di casa allargato, il luogo della condivisione delle vicende cittadine», ed esortando infine tutti gli astanti a vedere anche la realtà del turismo alla luce di Cristo.

LA NUOVA ENCICLICA SULLO SPIRITO SANTO

Il 30 maggio il Santo Padre diffonde la sua nuova lettera enciclica sullo Spirito Santo, Dominum et Vivificantem, nella quale richiama la cristianità alla fede nella Terza Persona della Santissima Trinità, ininterrottamente professata dalla Chiesa, sulla base delle Sacre Scritture e dell'incessante magistero pontificio. Suddivisa in tre parti e in 67 paragrafi, l'Enciclica è scritta, secondo il teologo ortodosso Olivier Clément, «con una sorta di urgenza escatologica» che «corrisponde all'idea del fallimento della storia, a ciò che l'ascesi tradizionale chiama "la memoria della morte" che spesso si trasforma in "memoria di Dio" del Dio vincitore della morte».
Sono parole e sentimenti che riecheggiano soprattutto nella terza parte del documento pontificio, là dove Giovanni Paolo II scrive: «Allo Spirito Santo si volgono il pensiero e il cuore della Chiesa in questa fine del ventesimo secolo e nella prospettiva del terzo millennio dalla venuta di Gesù Cristo nel mondo, mentre guardiamo verso il grande Giubileo con cui la Chiesa celebrerà l'evento. Tale venuta, infatti, si misura, secondo il computo del tempo, come un evento che appartiene alla storia dell'uomo sulla terra. La misura del tempo adoperata comunemente definisce gli anni, i secoli e i millenni secondo che trascorrano prima o dopo della nascita di Cristo. Ma bisogna anche tener presente che questo evento significa per noi cristiani, secondo l'Apostolo, la "pienezza del tempo", perché in esso la storia dell'uomo è stata completamente penetrata dalla "misura" di Dio stesso: una trascendente presenza del nunc eterno».
In fase finale, l'Enciclica passa a specificare quali siano le forme di rifiuto dello Spirito Santo concretatesi nella storicità contemporanea, e afferma: «Purtroppo, la resistenza allo Spirito Santo, che San Paolo sottolinea nella dimensione interiore e soggettiva come tensione, lotta, ribellione che avviene nel cuore umano, trova nelle varie epoche della storia, e specialmente nell'epoca moderna, la sua dimensione esteriore concretizzandosi come contenuto della cultura e della civiltà, come sistema filosofico, come ideologia, come programma di azione e di formazione dei comportamenti umani. Essa trova la sua massima espressione nel materialismo, sia nella sua forma teorica - come sistema di pensiero, sia nella sua forma pratica - come metodo di lettura e di valutazione dei fatti e come programma, altresì, di condotta corrispondente. Il sistema che ha dato il massimo sviluppo e ha portato alle estreme conseguenze operative questa forma di pensiero, di ideologia e di prassi, è il materialismo dialettico e storico, riconosciuto tuttora come sostanza vitale del marxismo».
Potrà stupire che il Papa riprenda oggi una terminologia e una contrapposizione frontale già in qualche modo largamente superate nella coscienza comune, ma forse occorre vedere in questa recisa presa di posizione la preoccupazione pastorale di non lasciare la Chiesa senza precise indicazioni in merito, mentre ancora sono attuali le soluzioni contrastanti che i diversi sistemi politici offrono per i problemi sociali delle nazioni. Il Papa passa quindi a considerare con tono molto drammatico e preoccupato quelli che definisce i «segni di morte» presenti sull'orizzonte della nostra epoca: l'aborto, l'eutanasia, le guerre, il terrorismo, e sintetizza così il suo pensiero: «Purtroppo questo è solo un abbozzo parziale ed incompleto del quadro di morte che si sta componendo nella nostra epoca, mentre ci avviciniamo sempre di più alla fine del secondo Millennio cristiano. Dalle tinte fosche della civiltà materialistica e, in particolare, da quei segni di morte che si moltiplicano nel quadro sociologico-storico, in cui essa si è attuata, non sale forse una nuova invocazione, più o meno consapevole, allo Spirito che dà la vita? In ogni caso - conclude il Papa - anche indipendentemente dall'ampiezza delle speranze o delle disperazioni umane, come delle illusioni e degli inganni, derivanti dallo sviluppo dei sistemi materialistici di pensiero e di vita, rimane la certezza cristiana che lo Spirito soffia dove vuole e che noi possediamo "le primizie dello Spirito" [...] La nostra difficile epoca ha uno speciale bisogno della preghiera. Se nel corso della storia - ieri come oggi - numerosi uomini e donne hanno dato testimonianza dell'importanza della preghiera, consacrandosi alla lode di Dio e alla vita di orazione soprattutto nei monasteri con grande vantaggio per la Chiesa, in questi anni va pure crescendo il numero delle persone che, in movimenti e gruppi sempre più estesi, mettono al primo posto la preghiera ed in essa cercano il rinnovamento della vita spirituale. È questo un sintomo significativo e consolante, giacché da tale esperienza è derivato un reale contributo alla ripresa della preghiera tra i fedeli, che sono stati aiutati a meglio considerare lo Spirito Santo come colui che suscita nei cuori un profondo anelito alla santità».

IL MALE RESTA UN PROBLEMA

Durante l'udienza generale del 3 giugno, il Santo Padre ha affrontato, commentando la prima lettera di San Pietro, il problema del male, la cui realtà, ha fatto osservare «costituisce per molti la principale difficoltà ad accettare la verità sulla Divina Provvidenza. In alcuni casi questa difficoltà - ha continuato il Papa - assume forma radicale, quando addirittura si accusa Dio a causa del male e della sofferenza presenti nel mondo giungendo fino a rifiutare la verità stessa su Dio è sulla sua esistenza (cioè all'ateismo)». Non è detto, naturalmente, che chi ritiene incomprensibile la presenza del male nell'universo voglia con questo mettere in causa l'esistenza stessa di Dio: solo, rimane perplesso di fronte al suo mistero insondabile, pur senza rinchiudersi nell'ateismo, a meno che con questo termine si voglia semplicemente indicare la mancanza di fede nel Dio cristiano, vale a dire in una determinata e particolare idea di Dio.
Dopo aver stabilito la distinzione consueta tra il male fisico e il male morale, il Papa ha così proseguito la sua catechesi sul male: «La sofferenza nasce nell'uomo - ha detto - dall'esperienza di queste molteplici forme di male. In qualche modo essa può trovarsi anche negli animali, in quanto sono esseri dotati di sensi e della relativa sensibilità, ma nell'uomo la sofferenza raggiunge la dimensione propria delle facoltà spirituali che egli possiede. Si può dire che nell'uomo la sofferenza è interiorizzata, coscientizzata, sperimentata in tutta la dimensione del suo essere e delle sue capacità di azione e reazione, di ricettività e di rigetto; è un'esperienza terribile, dinanzi alla quale, specialmente quando è senza colpa, l'uomo pone quei difficili, tormentosi interrogativi, a volte drammatici, che costituiscono ora una denuncia, ora una sfida, ora un grido di rifiuto di Dio e della sua Provvidenza. Sono interrogativi e problemi che si possono riassumere così: come conciliare il male e la sofferenza con quella sollecitudine paterna, piena d'amore, che Gesù Cristo attribuisce a Dio nel Vangelo? Come conciliarli con la trascendente sapienza e onnipotenza del Creatore? E in forma anche più dialettica: possiamo noi, di fronte a tutta l'esperienza del male che è nel mondo, specialmente di fronte alla sofferenza degli innocenti, dire che Dio non vuole il male?».
A questi drammatici interrogativi il Papa confessa: «Anche noi, come Giobbe, sentiamo quanto sia difficile dare una risposta. La ricerchiamo non in noi, ma con umiltà e fiducia nella Parola di Dio». E conclude la sua catechesi affermando che Dio permette il male fisico e il male morale soltanto perché «l'esistenza degli esseri liberi è per lui un valore più importante e fondamentale del fatto che quegli stessi esseri abusino della propria libertà contro il Creatore, e che perciò la libertà possa portare al male morale». Naturalmente, si potrebbe dire che questa - più che una spiegazione - è una semplice tautologia, e domandarsi che razza di libertà sia quella riconosciuta a un essere inferiore il quale, se l'adopera in maniera diversa dalla scelta del «bene», verrà condannato a una pena eterna e separato per sempre (?) dal Creatore. Ma temiamo che a queste domande né il Papa né Giobbe potrebbero dare risposta. La risposta, forse, sta nella semplice fede e nell'abbandono in Dio, o magari in qualche altra dottrina religiosa differente da quella cattolica, in una di quelle dottrine per le quali il Papa stesso ha dimostrato recentemente il massimo rispetto e la più grande tolleranza.

IL VIAGGIO IN COLOMBIA

Il giorno della festa dei Santi Pietro e Paolo, il giugno 1986, il Santo Padre annunciava il suo nuovo pellegrinaggio apostolico in Colombia, elencando tutte le tappe che avrebbe toccato in questo importante Paese dell'America Latina, e precisamente il Santuario Nazionale della Vergine di Chiquinquirá, e poi Bogotá, Tumaco, Popayán, Cali, Chinchiná, Medellín, Armero, Bucaramanga, Cartagena e Barranquilla, dicendosi dispiaciuto di non poter andare di persona in altre città e luoghi in cui pure era stata richiesta la sua presenza.
Il viaggio ebbe inizio martedì 1° luglio e fu seguito con molta attenzione dalla stampa internazionale, finalmente distolta dal campionato mondiale di calcio e libera di dedicarsi a qualche altro evento. Sbarcando a El Dorado, l'aeroporto della capitale colombiana, il Papa si è chinato, com'è sua abitudine, a baciare la terra e ha subito dichiarato: «Vengo nel vostro nobile Paese come messaggero di evangelizzazione che innalza la croce di Cristo». Forse le parole non furono le più ispirate, visto che ricordavano troppo da vicino altri sbarchi e altre croci, innalzate su quelle terre o su terre affini del continente americano dai grandi navigatori europei (uno dei quali diede il suo nome proprio alla nazione che accoglieva ora il Santo Padre) arrivati in veste di conquistatori rapaci in nome dei loro re «cattolici», spargendo lacrime e sangue senza rimorsi eccessivi...
Ad ogni modo, non certo agli antichi conquistadores, bensì semplicemente al suo venerato predecessore papa Paolo VI è andata subito la memoria del Pontefice, nel ricordo del viaggio compiuto da Montini a Bogotà il 23 agosto 1968 per presiedere il trentanovesimo Congresso eucaristico internazionale. Si trattava dunque ora della seconda visita di un papa in Colombia, una nobile nazione, ha detto Giovanni Paolo II, provata negli ultimi anni da gravi avvenimenti di natura diversa che hanno fatto ricadere sui suoi abitanti disgrazie e dolori a volte inenarrabili...
Dopo una visita alla cattedrale e un incontro coi religiosi e col clero, Wojtyla si è incontrato nella sede del governo col presidente della Repubblica Belisario Betancour e la moglie Dona Rosa Helena, vedendo poi in un'altra sala del palazzo il nuovo presidente eletto Virgilio Barco, che entrerà in possesso della carica soltanto il 7 di agosto. Infine, salutando le altre personalità presenti, il Papa ha incontrato anche il capo politico della guerriglia antigovernativa, Jaime Pardo, presentatosi anch'egli alle elezioni come candidato alla presidenza.
Due volte, il giorno successivo, papa Giovanni Paolo II si è rivolto ai guerriglieri ancora operanti nel Paese, ai quali veniva così concessa una insperata vetrina internazionale, anche se non precisamente nel senso da essi desiderato. Il Papa ha naturalmente chiesto loro di deporre immediatamente le armi, dapprima parlando ai giovani riuniti nel grande stadio di Campìn: «Io grido da qui anche a voi - ha detto - che avete intrapreso il cammino della guerriglia o nutrite simpatia per essa: allontanatevi dai cammini dell'odio e della morte, e convertitevi alla causa della riconciliazione e della pace».
I cronisti del viaggio papale rilevavano che proprio mentre si recava in cattedrale sulla consueta «papomobile» blindata il pontefice aveva potuto vedere, in piazza Simón Bolívar, i segni del fuoco e dei proiettili, le tracce ancora evidenti della feroce battaglia che pochi mesi prima, nel novembre 1985, aveva causato 95 morti e undici dispersi al Palazzo di Giustizia occupato da elementi del movimento terroristico M-19 e liberato dalle forze di polizia soltanto a prezzo di un massacro. E proprio mentre il Papa pronunciava il suo appello, si aveva notizia della morte di sette guerriglieri delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia) in uno scontro a fuoco, e di due attentati a impianti elettrici e petroliferi nel Nord del Paese da parte dell'ELN (Esercito di Liberazione Nazionale), la formazione filocastrista nella quale militò a suo tempo il prete cattolico Camilo Torres («lo affido alla misericordia di Dio», ha detto di lui il Papa). Tra l'altro si è avuta notizia che i miliziani delle FARC avevano scritto due volte in Vaticano, nei mesi scorsi, offrendosi di prelevare il Pontefice a Bogotá e di portarlo in una loro base segreta per esporgli un progetto di mediazione. Alle lettere dei guerriglieri ha risposto la Nunziatura apostolica, declinando l'invito un po' troppo romanzesco, ma il Papa non ha rifiutato di benedire, da parte sua, anche i guerriglieri, purché si rendano disponibili a una evoluzione positiva della situazione.
Nei suoi discorsi, Giovanni Paolo II ha citato la sua recente enciclica sullo Spirito Santo e il pressante invito a costruire la pace in essa contenuto, quindi ha accennato alla importanza della questione sociale nell'America Latina: «Le relazioni di giustizia e solidarietà - ha detto - fra ricchi e poveri costituiscono una priorità. È il caso, per i Paesi del Terzo Mondo e dell'America Latina, del problema del debito verso i Paesi più ricchi». Era questa la prima volta. che il Papa prendeva una posizione così esplicita sulla grave questione internazionale: «è dunque necessario» - ha infatti soggiunto - «arrivare ad accordi nei quali non tutto rimanga soggetto ad un'economia ferreamente tributaria delle leggi economiche, senza anima e senza criteri morali. Qui si iscrive l'obbligo di rispettare una solidarietà internazionale che oggi ha una particolare incidenza sul problema del debito estero che opprime l'America Latina e gli altri Paesi del mondo».
A Tumaco, il porto colombiano sul Pacifico, il Papa ha trovato un pezzo d'Africa, incarnato nei volti, nei colori e nei ritmi di una popolazione che discende direttamente dagli schiavi neri importati a suo tempo per lo sfruttamento delle ricche miniere d'oro. La missione di Tumaco è stata scelta dagli organizzatori del viaggio papale per l'incontro del Pastore con l'intera Chiesa missionaria della Colombia. La missione si estende ai confini dell'Ecuador e ha quasi un secolo di vita. I cronisti descrivono lo scenario suggestivo con il palco del Papa sulle rive dell'Oceano, adorno di fiori e frutta tipica di queste zone meridionali. Il luogo dell'incontro è fuori dell'ordinario: la cacha de San Judes, un campo sportivo ricavato ricoprendo di terra un antico galeone affondato. Sotto il sole che picchia i presenti cantano il Padre Nostro in currulao, traendo dalla preghiera cristiana una dolce melopea che ha il sapore dei canti dei loro antenati ridotti in schiavitù. Il benvenuto al Pontefice viene dato da Benito Castillo, un poeta popolare nero, e per dissetarsi gli viene porta acqua di cocco, non essendo consigliabile l'acqua inquinata del luogo.
Giovanni Paolo II parla dell'emancipazione degli Indios ed esclama: «La Chiesa non può restare in silenzio né passiva di fronte all'emarginazione di molti di loro». Per questo, li accompagna validamente e pacificamente, nello spirito del Vangelo, «in special modo quando si tratta di difendere i loro legittimi diritti alla proprietà, al lavoro, all'educazione e partecipazione alla vita pubblica del Paese». Dalla costa del Pacifico quindi il Santo Padre si sposta a 1700 metri sul livello del mare, raggiungendo con un volo di 250 chilometri l'antica città coloniale di Popayán, tutta bianca, ai piedi di un vulcano. Un tempo essa era famosa per le sue antiche case di stile andaluso: in questa, che è la capitale della regione più povera del Paese, il Cauca, è in programma l'incontro del Papa con gli Indios che in questi territori rappresentano poco più del dodici per cento della popolazione, vale a dire la più alta percentuale nazionale.
Prima di incontrarsi con gli Indios il Santo Padre sosta nella cattedrale distrutta quattro volte dal terremoto, l'ultima volta il marzo del 1983, il giorno di Giovedì Santo... Intanto, migliaia di Indios lo aspettano su una spianata presso l'aeroporto, e una loro delegazione si avvicina ai microfoni per esporre i problemi della comunità indigena. L'oratore rievoca la storia di sofferenza seguita allo sbarco dei conquistadores: «Cinquecento anni di una storia fatta di silenzio e di dolore, nel disprezzo, nell'emarginazione del martirio sconosciuto, perché martirio del popolo indio... Le maestose cime delle Ande, le pianure e le profonde selve amazzoniche - dice l'oratore - sono testimoni muti di tante sofferenze e di tante speranze».
Ed ecco una testimonianza di Silvano Stracca, l'inviato del quotidiano «Avvenire» al seguito del Papa: «Ricordando più avanti l'espropriazione delle proprie terre da parte dei latifondisti, l'indio accenna all'intervento in difesa degli indigeni di settori del clero che per averli difesi sono poi stati accusati di sovversione. Poco dopo, le parole della traduzione spagnola vengono interrotte da un sacerdote. Il Papa sembra non comprendere il motivo di ciò, e prima di iniziare il suo discorso dice: "Mi è stato dato il testo integrale. Lo leggerò con attenzione". Poi l'indio si avvicina a Giovanni Paolo II assieme al padre di un sacerdote indigeno, Alvaro Ulcué, ucciso il 10 novembre 1984. Il Papa li abbraccia. Quindi legge il suo discorso. Al termine, lo speaker annuncia che, per espresso desiderio del Papa, verrà continuata la lettura del testo spagnolo. L'indio riprende la lettura dal punto in cui era stato interrotto e sollecita tra l'altro un intervento di Giovanni Paolo II presso la commissione per i diritti umani». Forse a qualche lettore potrà tornare in mente la serie delle drammatiche sequenze del bellissimo film americano intitolato Mission, con Robert De Niro e Jeremy Irons. Non è improbabile che questo fosse lo spirito dell'evento...
Nel pomeriggio il Papa fa ritorno a Cali per dir messa, e la sera va a cena con venti bambini delle parrocchie della città.

SOTTO IL VULCANO

Domenica 6 luglio il Papa è in preghiera ai piedi del Nevado, il «vulcano assassino» alto 4.500 metri che il 13 novembre del 1985 provocò la morte di 23 mila vittime, coperte da un diluvio di neve, lava e fango. Il Papa ha pregato in ginocchio ai piedi della grande croce innalzata sulla spianata di fango dove una volta c'era l'abitato di Armero: aveva trentamila abitanti, soltanto settemila si salvarono. Scrive sul «Corriere della sera» Luigi Accàttoli, anch'egli inviato al seguito del Pontefice: «La preghiera del Papa è stata come un rito funebre per quei morti che non ebbero tomba né funerale. "Padre celeste - ha detto il Pontefice mentre il vento gli gonfiava le vesti - ricevi benigno nel tuo seno misericordioso tanti fratelli nostri qui sepolti dalle forze scatenate della natura". Le autorità avevano proibito l'accesso ad Armero - prosegue il cronista - perché il vulcano è ancora in attività. Il Papa c'è andato in elicottero, c'erano appena duecento invitati e giornalisti. La scena è stata trasmessa dalla televisione. Su quella spianata di fango e lava, solcata da crepe, c'era un sole a 32 gradi. Il Papa ha cercato di dire anche parole di speranza». Poi Giovanni Paolo II ha affrontato l'altro grave problema della Colombia, quello della droga. Ne ha parlato la prima volta a Cartagena, paragonando la schiavitù del tossicomane alla tratta dei negri per la quale la località fu famosa, poiché vi sbarcavano i galeoni carichi di deportati dalle coste africane. In tre secoli ne arrivarono così quasi duecentomila. «Oggi come nel secolo XVII - ha detto il Papa - l'ambizione del denaro si impadronisce del cuore di molte persone e le trasforma, con il commercio della droga, in trafficanti della libertà dei loro fratelli, che rendono schiavi di una schiavitù a volte più terribile di quella degli schiavi neri. I negrieri impedivano alle loro vittime l'esercizio della libertà. I trafficanti di droga portano le proprie vittime alla distruzione stessa della personalità. Dobbiamo lottare con decisione contro questa nuova forma di schiavitù», ha concluso il Papa. I trafficanti di droga in Colombia, annota il cronista, sono una potenza economica: controllano il dieci per cento della ricchezza nazionale; esportando cocaina e marijuana fanno entrare nel Paese dai 4 ai 5 miliardi di dollari ogni anno.

A SANTA LUCIA

Il 7 luglio 1986 la visita del Papa nell'America Centrale si concludeva con uno scalo a Castries, capitale del piccolo Stato di Santa Lucia (Saint Lucia sulle mappe), indipendente dal 1979 nell'ambito del Commonwealth Britannico e consistente in un'isola di poco più di 600 chilometri quadrati, abitata in prevalenza da cattolici neri di espressione franco-creola. Giovanni Paolo II, salutando il Governatore dell'isola e le altre autorità, si è dichiarato consapevole del fatto che la Chiesa cattolica ha contribuito in modo molto significativo allo sviluppo di Santa Lucia, soprattutto nel campo dell'istruzione. Le prime religiose - ha ricordato più tardi il Papa durante la celebrazione della messa - giunsero a Santa Lucia nel 1847 e in un solo mese avevano già aperto una scuola per istruire i giovani. L'opera cattolica si ingrandì sempre più, finché nel 1956 fu possibile erigere la diocesi di Castries, che dopo soli diciotto anni veniva elevata al rango di arcidiocesi. Il Papa si congedava infine dai giovani dell'isola salutandoli nella loro lingua franco-creola così: Zanfan Bon Dye, pwen kouwaj mete konfyans ou an Bon Dye («Figli di Dio, prendete coraggio e riponete la vostra fiducia in Dio»). Quindi, prendendo il volo dall'aeroporto di Hewanorra, faceva ritorno a Roma.

CATECHISMO SUGLI ANGELI RIBELLI

Il mese di agosto del 1986 è stato caratterizzato soprattutto dalla catechesi del Papa sugli angeli ribelli (il 31 luglio aveva parlato degli angeli in generale). Così, nell'udienza generale del 13 agosto, Giovanni Paolo II, correggendo le tesi ultimamente invalse anche nel mondo teologico, ha riaffermato l'esistenza di tali misteriose e superiori creature, soggette a una prova (non sappiamo quale) da parte di Dio e quindi a una «caduta» che presenta il carattere del «rifiuto di Dio con il conseguente stato di dannazione» e consiste «nella libera scelta di quegli spiriti creati, che hanno radicalmente ed irrevocabilmente rifiutato Dio e il suo regno, usurpando i suoi diritti sovrani e tentando di sovvertire l'economia della salvezza e lo stesso ordinamento dell'intero creato».
È difficile, naturalmente, comprendere come delle creature spirituali, tanto più intelligenti ed elevate dell'uomo, abbiano potuto precipitare in tale abisso diventando liberamente cattive e perdendo così la loro felicità originaria: rimane il fatto che chi di loro non superò la «prova» si mise nella condizione di odiare Dio e l'uomo per sempre... «Per questo - dice il Papa parlando di Satana - egli vive nella radicale e irreversibile negazione di Dio e cerca di imporre alla creazione, agli altri esseri creati a immagine di Dio, ed in particolare agli uomini, la sua tragica menzogna sul bene che è Dio» (e bisogna pur dire che anche questa tragica e patetica insistenza in una battaglia perduta non depone a favore dell'intelligenza dell'angelo decaduto).
Tuttavia, soggiunge il Papa, esso ha acquistato in una certa misura il dominio sull'uomo, come effetto del peccato dei nostri progenitori.
Dopo aver ricordato le diverse allusioni e definizioni scritturali, in cui il Satana viene chiamato il principe e perfino il dio di questo mondo, il Santo Padre ne ha ricordato anche i vari nomi, da Belial a Beelzebul e Diavolo. Questa rassegna satanica ha scatenato sui giornali italiani una serie di osservazioni più o meno pacchiane circa le forme che Satana avrebbe assunto nell'iconografia e nell'immaginario popolare (di mostro, di bestia, eccetera), descrizioni vanamente attribuite al Papa che invece non vi aveva in nessun modo fatto cenno nella sua catechesi, limitandosi a dire che «l'abilità di Satana nel mondo è quella di indurre gli uomini a negare la sua esistenza in nome del razionalismo e di ogni altro sistema di pensiero che cerca tutte le scappatoie pur di non ammetterne l'opera». Con il che, il cerchio è chiuso: Satana certamente esiste, e la semplice ipotesi di una sua non-esistenza costituisce la più sottile delle sue tentazioni...

MESSAGGIO AL MEETING

Il 23 agosto 1986 il Santo Padre si è rivolto con la consueta cordialità ai giovani organizzatori dell'ormai tradizionale Meeting di Rimini per la Pace e l'Amicizia, ricordando la sua personale partecipazione all'edizione del non lontano agosto del 1982, e congratulandosi per il tema prescelto nell'anno in corso: la comunicazione. «È questo - ha detto il Papa - un termine che ben esprime una componente essenziale dell'uomo, e configura al tempo stesso una caratteristica peculiare dell'epoca in cui viviamo. Si può dire infatti che in tutta la sua storia l'uomo è sempre stato mosso dal desiderio e dalla ricerca di una sempre più profonda e intensa comunicazione col proprio simile e con l'Essere supremo».
Questa esperienza di comunicazione si è oggi dilatata e approfondita a dismisura grazie all'avvento dei mezzi tecnologici più moderni; rimane l'esigenza di discernere, nell'immenso e indistinto mare dei messaggi quotidiani, la attendibilità delle fonti e la correttezza dei contenuti: «La Chiesa - ha concluso il Papa - nulla ha da temere dallo sviluppo dei mass media, anzi essa vuole che i suoi figli vi siano impegnati in prima fila, affinché ciò che è opera dell'uomo sia veramente al servizio della crescita integrale della persona».

CANCELLATO LO «SCHIAFFO DI ANAGNI»

L'ultimo giorno di agosto del 1986 il Papa lo ha trascorso in visita nella storica cittadella di Anagni, in provincia di Frosinone, dove otto secoli fa un suo predecessore ebbe a subire lo storico affronto di cui parlano le antiche cronache, raccontando di come papa Bonifacio VIII (per la verità, non certo uno stinco di santo, come si dice...) ricevette in pieno viso uno schiaffo da parte di Guglielmo di Nogaret, cancelliere del re di Francia Filippo il Bello. Fu sicuramente un oltraggio, anche se magari, come qualcuno sostiene, non vi fu un vero schiaffo «manesco» ma soltanto uno schiaffo, per così dire, morale. Resta il fatto che dell'episodio si è tramandata memoria sino ad oggi, e la città di Anagni, ricevendo in pompa magna il Papa che arrivava in elicottero dalla sua residenza estiva di Castel Gandolfo per la prima volta nella storia del pontificato, gli ha decretato la cittadinanza onoraria, festeggiandolo col gonfalone comunale i cui colori (bianco e rosso) sono gli stessi della bandiera polacca... «Il pensiero - ha detto il Papa rivolgendosi ad autorità e popolo - corre in questo momento alle epoche passate e a tante figure storiche: Leone IV, a metà del secolo IX, che qui si rifugiò per salvare la sua indipendenza; Adriano IV, che sfidò Federico Barbarossa; Alessandro III. Non si può inoltre non ricordare Innocenzo III e Alessandro IV, oriundi di questo territorio, e Gregorio IX, nato ad Anagni come Bonifacio VIII, successore di Celestino V, che qui subì l'affronto di Guglielmo di Nogaret, regio cancelliere di Filippo il Bello, e di Sciarra Colonna, che Dante Alighieri ricorda con i celebri versi del ventesimo canto del Purgatorio. Quanti secoli sono passati! - ha concluso il Papa - Quante vicende, talora drammatiche e burrascose, si sono succedute sul quadrante della storia sia civile che ecclesiastica! [...] Possa la mia visita pastorale alla cara città e alla diocesi di Anagni confermare i vostri animi nella fede e stimolarvi ad una vita cristiana sempre più impegnata e fervorosa, aperta alle richieste e alle necessità della comunità civile, e sensibile alla carità fraterna, per l'amore di Dio, per il bene della Chiesa e della società, nella reciproca costante edificazione».

NELLA VAL D'AOSTA

È ben noto quanto al Papa siano care le montagne, abituato com'era a trascorrervi lunghi periodi di meditazione e di svago fin da quando era giovane sacerdote nella sua Polonia. Anche da Pontefice, egli cerca di ritornarvi il più spesso possibile, quando le circostanze se ne presentino.
Così, il 6 settembre eccolo in Val d'Aosta, tra le cime più alte e venerabili dell'intera catena delle Alpi, a dichiarare senza retorica: «Sono lieto di trovarmi qui oggi tra voi, in questi luoghi stupendi cantati dai poeti, in mezzo a una popolazione forte e coraggiosa che, con l'influsso dell'ambiente, si è costruita un carattere dalla spiccata personalità fatta di amore alla bellezza della natura, di rispetto e di spontanea solidarietà per l'uomo e soprattutto di attaccamento alla fede del Vangelo. Nel metter piede in questi luoghi - ha poi continuato - colpisce subito la constatazione di trovarsi in un posto privilegiato, che in breve spazio di terra raccoglie scenari di così grande bellezza: catene di monti, nevi, ghiacciai, fiumi, prati, fondovalli. Dal punto di vista delle dimensioni geografiche, la Val d'Aosta risulta la più piccola regione italiana, ma in essa si affacciano le cime più alte d'Europa».
«È un palcoscenico naturale - ha concluso il Papa - il più adatto a elevare irresistibilmente l'anima in alto, per portarla alla contemplazione dell'Invisibile, che è lo stesso Autore delle bellezze della natura». Il Papa ha poi accennato alla lunga storia delle popolazioni valligiane e al loro spirito di autonomia, elogiando lo Statuto speciale che ne favorisce la coesistenza armoniosa e il turismo. Ha anche fatto cenno al santo canonico e arcidiacono di Aosta, San Bernardo di Mentone, il quale, verso l'anno mille, fondò le chiese e gli ospizi che ora portano il suo nome, passato anche ai robusti cani soccorritori ben noti a chi si avventurava in queste montagne fino a un non lontano passato. Il Santo Padre ha infine ricordato il suo predecessore papa Pio XI, anch'egli familiare con la montagna e con l'alpinismo, che nel 1923 proclamava protettore degli alpinisti per l'appunto San Bernardo di Mentone, salutando «tutti coloro che si dedicano a questo sport accettando le esigenze che esso richiede, qualità molto apprezzabili come tenacia, padronanza di sé, solidarietà nelle cordate e gusto della scoperta delle cime».
Il 7 settembre il Papa ha parlato anche alla cittadinanza di Courmayeur e quindi ha recitato l'Angelus sopra il Mont Chetif, esaltando nell'omelia l'unità dell'Europa, particolarmente sensibile su quelle alte cime che si ergono sui confini di tre nazioni. Ha quindi fatto ritorno ad Aosta, incontrandosi col clero e coi religiosi locali. La settimana seguente era in visita ad Aprilia, nella parrocchia dedicata a Maria, Madre della Chiesa. Quindi faceva ritorno a Castel Gandolfo, ricevendo il Consiglio comunale e le forze dell'ordine della cittadina. Infine, il 30 settembre 1986, consacrava all'arcangelo San Michele le sorti di Roma, benedicendone la statua nel giorno della festa dei tre arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele. Il giorno prima, salutando alcuni pellegrini francesi, aveva preannunciato ufficialmente il suo imminente terzo pellegrinaggio in terra di Francia, previsto per i giorni dal 4 al 7 ottobre, nonostante le tenebrose «previsioni» di profeti come Michele Nostradamus (o piuttosto le incaute interpretazioni dei loro esegeti), secondo le quali avrebbe corso un grave rischio di vita soffermandosi nella città di Lione, posta «tra due fiumi», alla confluenza del Rodano e della Saona.

MISSIONARIO NELLE GALLIE

La trentunesima visita pastorale del Papa fuori dei confini d'Italia comprendeva alcune tra le tappe più significative della storia del cristianesimo cattolico europeo, come il villaggio di nascita del celeberrimo Santo Curato d'Ars, patrono dei sacerdoti, e la basilica dedicata al Sacro Cuore a Paray-le-Monial, da questo culto assai controverso eppure divenuto popolarissimo (nel 1786 rischiò di suscitare addirittura uno scisma in Toscana, dove era malvisto a causa dell'influenza del pensiero giansenista) ebbe a prendere le mosse dopo le visioni mistiche di Margherita Maria Alacoque.
Il villaggio di Ars, dove svolse il suo apostolato San Giovanni Battista Maria Vianney nel secolo scorso, un paesino di appena settecento anime, teneva il posto d'onore nell'itinerario pontificio. Per Giovanni Paolo II si è trattato infatti del «prete ideale», al quale si ispirava la sua condotta fin da quando frequentava il seminario di Cracovia. «Non abbiamo il diritto di rinunciare a tali modelli - ha detto il Papa - Non possiamo considerarli sorpassati o inattuali, e meno ancora come illustrazioni di una teologia a una sola dimensione». Il rimprovero è appena velato: certo, non sono tanti gli attuali sacerdoti cattolici che nello stile - almeno esterno - di vita possono ricordare il Santo Curato d'Ars.
A Paray-le-Monial, nel grande santuario del Sacro Cuore, Giovanni Paolo II ha parlato a migliaia di cristiani «carismatici», una realtà nata dopo il Concilio e considerata con molta carità e prudenza dalla gerarchia ecclesiastica. Sono arrivati dalla Francia e dal Belgio, dalla Svizzera, dalla Germania e dall'Olanda per questo incontro «di legittimazione» col Papa, il primo che avvenga nella storia del suo pontificato, e quindi tanto più significativo e importante. Sullo sfondo della visita, che ha bloccato per ore e ore il centro di Lione, le statistiche e le notizie o divagazioni su un possibile attentato (con l'occhio alle cattive interpretazioni di Nostradamus, come s'è già detto). Le statistiche dicono comunque che in Francia il 61% dei cittadini non va mai a messa, il 50% ritiene accettabile l'aborto pur professandosi cattolico e ancora il 61% sarebbe favorevole anche al sacerdozio delle donne, una prospettiva che il Papa ha sempre energicamente respinto. Per le vie di Lione si sono visti anche un centinaio di manifestanti antipapisti appartenenti al gruppo anticlericale OSTIE (Opposizione alla sottomissione e all'istruzione ecclesiastica), che si sono scontrati in centro con gruppi di giovani cattolici tradizionalisti.

IL RADUNO DI ASSISI

Il 26 ottobre il Santo Padre era a Perugia, e il giorno seguente ad Assisi, dove i rappresentanti delle diverse Chiese e comunioni cristiane e quelli delle grandi religioni del mondo erano stati da lui stesso inviati a una grande giornata di preghiera fraterna in comune per la pace. E di una grande giornata si è trattato, nonostante il vento gelido che spazzava le vie e le piazze della mistica cittadella di San Francesco, pacificamente invase dai variopinti abiti cerimoniali di musulmani e buddhisti, taoisti e confuciani, anglicani e ortodossi, perfino dei pellirosse adoratori del Grande Spirito delle praterie... Una giornata che ha visto il Papa, uomo tra gli uomini, seduto in mezzo a tutti gli altri capi religiosi nella sua semplice veste bianca, senza alcuna distinzione di onori né di posto, invitante alla preghiera con parole ispirate a un'autentica fratellanza, invocanti «un vero silenzio interiore». Facciamo di questa giornata una anticipazione di un mondo pacifico! - ha invocato il Papa - chiedendo una tregua di 24 ore simile alla medioevale «tregua di Dio» che serviva a separare per un certo tempo i contendenti. Purtroppo non tutti i moderni guerreggianti lo hanno ascoltato, com'era da attendersi; ma l'intenzione era buona, e l'esempio dato ad Assisi è stato luminoso e duraturo.

AGLI ESTREMI CONFINI DEL MONDO

Martedì 18 novembre, infine, il Santo Padre intraprendeva il suo trentaduesimo viaggio pastorale fuori dei confini d'Italia, raggiungendo con un primo balzo di 7.300 chilometri la città di Dacca, nel Bangladesh. Nel suo complesso questo trentaduesimo viaggio papale sarà il più lungo tra tutti quelli finora effettuati: durerà quattordici giorni, toccherà sei diversi Paesi, quasi tutti nell'emisfero meridionale o australe, e comporterà quasi cinquantamila chilometri di volo. Ecco dunque Giovanni Paolo II trascorrere senza stanchezza dal Bangladesh, uno dei Paesi più poveri del pianeta, alla ricca Singapore, quasi totalmente occidentalizzata; dalle Isole Figi, sperdute nel mezzo del Pacifico, alla Nuova Zelanda e all'Australia, il Paese-continente della «nuova società» dove tutto assume dimensioni colossali, dalle distanze alle realizzazioni sociali. Eccolo infine raggiungere le minuscole isole Seychelles, nell'Oceano Indiano, dove una crosta superficiale di turistico benessere copre ma non nasconde antiche e reali condizioni di miseria e povertà. In tutti questi Paesi così diversi tra loro, il Papa trascorrerà portandosi dietro come sempre la sua immensa ansia pastoriale e l'urgenza di confermare nella fede quelle porzioni del popolo di Dio che qui vivono sovente problemi drammatici e apparentemente senza soluzione. Ma «con Gesù Cristo non sarete mai soli!» ha loro gridato il Papa, chiedendo ai «cristiani delusi» della grande Australia di non temere e di ritornare a casa, dove il Padre comune li aspetta a braccia aperte. Rispondendo alle domande che gli venivano poste via radio dai bambini di una scuola, Giovanni Paolo II ha poi riaffermato che la più bella preghiera del mondo rimane il Padre Nostro, quella stessa che Gesù insegnò direttamente ai suoi discepoli i quali gli avevano fatto la stessa domanda.